Il Direttore non ha voluto vederlo. L’abate è proprio il tipo che
al Direttore non dice nulla: non ha fisico, non ha potere, non ha denaro, e poi
è un prete. Un vergine, quindi rinsecchito e senza garbo. Così è. Si è
pure ritirato in una canonica, pare, non fa più le guerre per gli operai in
periferia – o non in una canonica, a Saint-Wandrille in Normandia, san
Vandregisilo, un convento di benedettini, altra razza di cocciuti, che la
chiesa distrutta dagli Alleati hanno ricostruita pietra su pietra. A me sembra invece di conoscerlo da
sempre, forse per aver fatto le scuole dai preti. Anche lui mi parla come se
riprendessimo una conversazione.
È incazzato nero. Proprio così, non lesina le parole dure, perfino oscene. Una sua nipote è comparsa in alcune cronache come terrorista. Anzi peggio, come basista a Parigi di un gruppo di doppiogiochisti per conto dei servizi segreti, probabilmente americani.
Anch’io ho in orrore le cronache disinvolte. Quando si tratta di servizi segreti bisognerebbe sempre avvisare che le notizie provengono inevitabilmente da altri servizi segreti. In più so che il ludibrio è accresciuto dalla parentela: la nipote diventa colpevole già per il fatto di avere uno zio prete. E so che questo pregiudizio è dei mentecattocomunisti. Io, che sono laico, non oserei neppure pensarlo. Povero abate, vittima del suo stesso masochismo spirituale!
Ma l’ascensore ha solo due piani da fare, lo prendiamo perché a ogni pianerottolo il giornale è pieno di guardioni antiterrorismo. Siamo subito all’ingresso e non so che fare per calmarlo. Dove lasciarlo, con che congedo? Se il Direttore non ha voluto sentirlo, sarà difficile che gli pubblichi quello che vuole dire. Penso di proporgli un tassì, ma per dove? Mi precede dicendo che vuole lasciare una protesta contro i giudici istruttori, che hanno diffuso tante false notizie. E mi libera da un peso. Il Consiglio Superiore della Magistratura è nella nostra piazza, l’accompagno a piedi, ci faccio un figurone.
All’ingresso non va bene. Il palazzo dei Marescialli è chiuso, non c’è la targa con l’orario, non si suona, non c’è battente. I pugni sul gros-o portone risuonano come la bambina di Cappuccetto Rosso che bussa alla nonna nel bosco. Ma una volante esce provvidenziale in tromba, lasciando un varco nel portone che si richiude automaticamente per intrufolarci. L’abate è in tonaca, e questo ci proteggerà in tanto augusto ambiente confessionale da interpellazioni urlate e strattoni. Così è. Con l’eccezione del solito guardione romanizzato che tutti tratta da mentecatti, abbondando in dondolamenti e sguardi inceneritori. Per esperienza non mollo. Bisogna farsi umili e insistere, per passare all’istanza successiva. E ci arriviamo.
È l’usciere dell’ufficio “passi”. L’usciere spiega in italiano, atteggiando il viso a cortesia, benché disturbato nel suo riposo in orario di chiusura, la zolfa dell’orario di ricevimento. È protetto da un vetro, parliamo attraverso i microfoni, e questo è già un bell’effetto. Ma mi sovviene che l’abate non parla l’italiano e alzo il tiro: ospite francese, personaggio illustre, è stato in Vaticano, è stato a Palazzo Chigi, gli hanno detto di rivolgersi al Csm. È fatta, l’usciere telefona.
Siamo scortati all’ascensore. Al piano ci aspetta un altro usciere in divisa. Entriamo in una delle solite stanze Novecento, incredibilmente grandi. Dietro una scrivania piena di cartacce è seduto uno stinto signore in occhiali e senza capelli, ma pieno di forfora. Mi appresto a fare le presentazioni e riepilogare i fatti. Il signore, segretario di non s’è capito che cosa, non me ne dà il tempo. Spiega le procedure, i ricorsi, gli avvocati, i giudizi di merito, i giudizi disciplinari, e sillaba spesso frasi in latino, con l’evidente intenzione di farsi meglio capire dall’abate.
Sono costernato. Dovrei tradurre, o forse no. E comunque il segretario non me ne dà il tempo. Ma ci pensa l’abbé Pierre. Si tira su dal sedione, con un piccolo balzo poggia i piedi per terra, estrae dalla tonaca una busta rigonfia, la mette sul tavolo, e dice in francese: “Questi sono i fatti. Tocca allo Stato rendersi l’onore”.
Usciamo in silenzio. L’abate sembra ancora fumare ira. L'accompagno al tassì. Il sant’uomo non mi saluta nemmeno. E come giornalista, lavoratore della comunicazione, mi sento un verme. Ma il segretario, almeno, avrà capito?
È incazzato nero. Proprio così, non lesina le parole dure, perfino oscene. Una sua nipote è comparsa in alcune cronache come terrorista. Anzi peggio, come basista a Parigi di un gruppo di doppiogiochisti per conto dei servizi segreti, probabilmente americani.
Anch’io ho in orrore le cronache disinvolte. Quando si tratta di servizi segreti bisognerebbe sempre avvisare che le notizie provengono inevitabilmente da altri servizi segreti. In più so che il ludibrio è accresciuto dalla parentela: la nipote diventa colpevole già per il fatto di avere uno zio prete. E so che questo pregiudizio è dei mentecattocomunisti. Io, che sono laico, non oserei neppure pensarlo. Povero abate, vittima del suo stesso masochismo spirituale!
Ma l’ascensore ha solo due piani da fare, lo prendiamo perché a ogni pianerottolo il giornale è pieno di guardioni antiterrorismo. Siamo subito all’ingresso e non so che fare per calmarlo. Dove lasciarlo, con che congedo? Se il Direttore non ha voluto sentirlo, sarà difficile che gli pubblichi quello che vuole dire. Penso di proporgli un tassì, ma per dove? Mi precede dicendo che vuole lasciare una protesta contro i giudici istruttori, che hanno diffuso tante false notizie. E mi libera da un peso. Il Consiglio Superiore della Magistratura è nella nostra piazza, l’accompagno a piedi, ci faccio un figurone.
All’ingresso non va bene. Il palazzo dei Marescialli è chiuso, non c’è la targa con l’orario, non si suona, non c’è battente. I pugni sul gros-o portone risuonano come la bambina di Cappuccetto Rosso che bussa alla nonna nel bosco. Ma una volante esce provvidenziale in tromba, lasciando un varco nel portone che si richiude automaticamente per intrufolarci. L’abate è in tonaca, e questo ci proteggerà in tanto augusto ambiente confessionale da interpellazioni urlate e strattoni. Così è. Con l’eccezione del solito guardione romanizzato che tutti tratta da mentecatti, abbondando in dondolamenti e sguardi inceneritori. Per esperienza non mollo. Bisogna farsi umili e insistere, per passare all’istanza successiva. E ci arriviamo.
È l’usciere dell’ufficio “passi”. L’usciere spiega in italiano, atteggiando il viso a cortesia, benché disturbato nel suo riposo in orario di chiusura, la zolfa dell’orario di ricevimento. È protetto da un vetro, parliamo attraverso i microfoni, e questo è già un bell’effetto. Ma mi sovviene che l’abate non parla l’italiano e alzo il tiro: ospite francese, personaggio illustre, è stato in Vaticano, è stato a Palazzo Chigi, gli hanno detto di rivolgersi al Csm. È fatta, l’usciere telefona.
Siamo scortati all’ascensore. Al piano ci aspetta un altro usciere in divisa. Entriamo in una delle solite stanze Novecento, incredibilmente grandi. Dietro una scrivania piena di cartacce è seduto uno stinto signore in occhiali e senza capelli, ma pieno di forfora. Mi appresto a fare le presentazioni e riepilogare i fatti. Il signore, segretario di non s’è capito che cosa, non me ne dà il tempo. Spiega le procedure, i ricorsi, gli avvocati, i giudizi di merito, i giudizi disciplinari, e sillaba spesso frasi in latino, con l’evidente intenzione di farsi meglio capire dall’abate.
Sono costernato. Dovrei tradurre, o forse no. E comunque il segretario non me ne dà il tempo. Ma ci pensa l’abbé Pierre. Si tira su dal sedione, con un piccolo balzo poggia i piedi per terra, estrae dalla tonaca una busta rigonfia, la mette sul tavolo, e dice in francese: “Questi sono i fatti. Tocca allo Stato rendersi l’onore”.
Usciamo in silenzio. L’abate sembra ancora fumare ira. L'accompagno al tassì. Il sant’uomo non mi saluta nemmeno. E come giornalista, lavoratore della comunicazione, mi sento un verme. Ma il segretario, almeno, avrà capito?
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