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giovedì 18 luglio 2019

La natura (non) ritorna con Pascoli

Non si ristampa più Pascoli ed è un peccato. Perché il suo mondo, rifiutato come “decadente” e \o provinciale, invece regge. Poetico e non patetico. Specie in clima ecologico, di re-mitizzazione della natura. E perché il Professore non è ingenuo come si vorrebbe, ma linguista acuto e ricercatore accanito.
In questi poemetti, che svolge in contemporanea con quelli che confluiranno nei “Canti di Castelvecchio”, segue e rivive la vita di villaggio, e di una singola famiglia nel villaggio, quella a lui più vicina, dei fratelli Rosa “dalle bianche braccia” e dalla treccia bionda, Viola, Nando, Dore, della loro vecchia madre, e di Rigo, che arriva per gli innesti e poi sposa Rosa, nonché dei loro figli. Un mondo semplice e chiuso, come quello del vecchio Hebel, “l’amico di casa” della Foresta Nera. Senza però non nulla della “poetica del fanciullino” nella quale si vorrebbe liquidare un poeta vigoroso, che ha sempre faticato per vivere, orfano bambino, che completa gli studi a singhiozzo, quando racimola una borsa di studio, socialista agitatore, linguista di straordinaria vigoria, nonché di acume. Famoso per le medaglie d’oro che vinceva a man bassa con i poemi in latino a Amsterdam, ma per nulla accademico, e sempre pronto a rimettersi in gioco. Soprattutto poeta, applicato alla lingua. Qui, e nei “Canti di Castelvecchio”, ai gerghi della Garfaganana, dove infine era riuscito a comprare case e podere, a Castelvecchio di Barga.
Il mondo contadino ormai perento, di cui la raccolta può dirsi testimonianza: gli innesti, i raccolti, la vendemmia. E l’emigrazione, del “sacro all’Italia esule”. “Pietole”, il poemetto finale, sul contadino che lascia Pietole, per dove non sa ma ha imparato il ritornello, in inglese, in tedesco, in spagnolo, per dire “sono italiano,\ ho fame” – e sono frasi che Pascoli ha preso da un manuale, il “Vademecum dell’Emigrante Mantovano”, di Clinio Cottafavi. A volte elevato a lirismo puro – “Fa, quando s’apre, un fiore più rumore” dell’amore muto di Rigo per Rosa. Poesie sparse, che tuttavia compongono un poemetto anche familiare, di Rigo e Rosa. Nel ritmo lento della campagna. Con poche interpolazioni, quasai tutte sul tema caratteristico della migrazione: “Il naufrago”, il poemetto “Gli emigranti nella Luna”, “Pietole”. 
Un altro mondo, la Garfagnana, un’altra lingua, la stessa vita, lo stesso Pascoli. Che la trasmutazione qui ha voluto linguistica, per una più piena sua identificazione,  un’immedesimazione, col mondo da lui scelto: la campagna remota, assonnata, sul Serchio. Un liomnguaggio che gli è stato rimproverato come artefatto. Ma il toscano doc suona bozzettistico, un italiano artefatto.   
Un Pascoli nel solco del Manzoni democratico, che del remoto borgo nella remota Garfagnana fa il Paradiso Ritrovato. Una raccolta anche di scuola, di recupero linguistico – la dedica è “Ai miei scolari\ di Matera Massa Livorno Messina Pisa Bologna”. Un aspetto di Pascoli trascurato, che si è confrontato con almeno quattro mondi linguisticamente diversi, radicalmente: la Romagna natia e poi Bologna, Matera e Messina, una Toscana che è tre Toscane, finitime ma irriducibili,Massa, Livorno e Pisa, e poi la Lucchesia, e in Lucchesia la Garfagnana d’elezione. Di un poeta che è personaggio egli stesso, e uno complesso, nell’adolescenza, in gioventù, nella famiglia, negli studi, erratici per la povertà sopravvenuta, nel magistero. Per una biografia di vita e intellettuale atipica, e perciò banalizzata (semplificata, evitata) – all’opposto di quella che si è voluto invece sulfurea, anormale, da poeta maledetto, del suo epigono Pasolini, una sorta di figlio o erede, che ne rivive tutti i tratti. Nelle note che ha volute aggiungere alla raccolta, molto fa il caso dell’emigrazione. Legandosi con sperticati elogi a Pasquale Villari, l’economista che già nel 1862, all’indomani dell’unità, ne aveva denunciato gli effetti deleteri per il Sud, autore nel 1909 di una serie di “Scritti sull’emigrazione”.    
L’ultima edizione di questi “Poemetti”, negli Oscar nel 1968 – il 1968 era un anno in cui si potevano vendere come tascabili di successo poemi e poemetti – a cura di Anna Maria Moroni mette in rilievo l’operazione linguistica. Di Pascoli sperimentatore di un nuovo strumento espressivo, il dialetto – nella fattispecie il vernacolo di Castelvecchio. Un’operazione evidente alla lettura. Che però non si ripropone.
Il pregiudizio è robusto. Anche nell’edizione di cinquant’anni fa Pascoli era indigesto. Perfino alla critica più congeniale, di cui l’Oscar offre un florilegio. Di Emilio Cecchi toscano. Del Renato Serra che sapeva di Europa. Di Gianfranco Contini appassionato filologo e anzi glottologo, che così lo liquidava: “Si tratta di scendere a un livello subumano ed estraneo alla storia…” - che non dice quello che dice: Contini non può credere subumano un contadino, e un eventuale subumano estraneo alla storia (con la S?); ma sì che Contini non amava Pascoli, pur stravedendo per Pasolini, di Pascoli evidente epigono. 

Giovanni Pascoli, Nuovi poemetti


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