Una condizione ora trova, la
paternità, non faticosa né ingestibile, al contrario delle “vite diverse”, e
anzi fonte di sensazioni irripetibili. Di cui ha già raccontato nel romanzo “Le
bonheur d’avoir une âme”, e qui sintetizza, “un giorno che m’inoltravo per
strada col mio primo bambino in braccio”: “Il sentimento di galleggiare, d’essere
alleviato dal peso che portavo, liberato della mia propria pesantezza, un sentimento
a priori irrazionale e d’altronde
ambivalente, costeggiando l’allegria animale e gloriosa di aprire il mondo…”,
etc.
Il Novecento è dei figli
Non c’è più il “padre
archetipo” - il padre padrone, la divaricazione essendo stata introdotta dai baby boomers degli anni 1960 - ed è un
bene ovviamente. Ma su questa ovvietà Leclair innesta una produttiva diversificazione
tra la letteratura dell’Ottocento e quella del Novecento, spartiacque la “Lettera
al padre” di Kafka. La questione risolvendo in altro modo dell’incompatibilità
fra creazione e procreazione. La “Lettera al padre”, arguisce, “fa di tutta l’opera di
Kafka, compreso il «Diario», una pietra angolare del XXmo secolo, dominato dalla
letteratura dei figli, come il precedente lo era stato dalla letteratura dei padri
(l’immenso Hugo dispiegato su tutta la mappa dei generi letterari)”. Partendo,
per quanto riguarda la Francia, da Rimbaud, “Una stagione all’jnferno”, e
includendo Proust, “in attesa che la madre muoia per costruire la cattedrale di
cui aveva tanto sognato con lei”, Céline, che adotta come nome quello di
battesimo della nonna, o Gide (“Famiglie, vi odio!”), e Beckett o Bataille, “Mia
madre”, “Il colpevole”, “Il piccolo”. Fino a Houellebecq, l’“Estensione del
dominio della lotta”: “Mio padre è morto un anno fa. Non credo a questa teoria seconda
la quale si diventa realmente adulti
alla morte dei genitori”. Con Victor Hugo naturalmente,
che le paternità se le inventa anche adottive, fittizie, nei “Miserabili”. Ma
più meravigliandosi di Balzac, “questo grande reazionario che è non di meno la
pietra angolare di tutte le modernità letterarie e sociologiche”: “Attraverso
il personaggio grandioso di «Papà Goriot» ha saputo rivelare il movimento di
rimpatrio di Dio nell’uomo nel momento stesso in cui si produceva… Un padre
divinizzato nella Parigi del 1835, la città assolutamente cinica e
scombussolata” dopo le ubriacature di rivoluziione e restaurazione, con
l’impero nel mezzo. Il padre “dal lato della bontà, del sacrificio, di ciò che
si chiama l’amore”, anche sul letto di morte, quando l’adorata figlia non si
cura di farsi vedere: “I padri devono sempre dare per essere felici. Dare
sempre, è ciò che fa che si è padri”.
Bertrand Leclair, Petit éloge de la paternité, Folio pp.
111 € 2
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