venerdì 12 luglio 2019

La paternità è una rinascita

“Non si nasce padri, lo si diventa”. Sotto questa insegna, non sorprendente, lo scrittore francese fa il suo piccolo elogio, in contrasto coi tempi, ma attento a non scivolare nella reazione, o restaurazione. Il suo trattatello è semmai un dubbio: com’è che sono padre di quattro figli, dai 4 ai 18 anni, “derivati da vite diverse”, dopo un’adolescenza negli anni 1970 programmaticamente di rifiuto, incondizionato. Per l’ecologia eugenetica già imperante, “niente futuro, niente figli”. E per il piacere del piacere, “senza conseguenze”.
Una condizione ora trova, la paternità, non faticosa né ingestibile, al contrario delle “vite diverse”, e anzi fonte di sensazioni irripetibili. Di cui ha già raccontato nel romanzo “Le bonheur d’avoir une âme”, e qui sintetizza, “un giorno che m’inoltravo per strada col mio primo bambino in braccio”: “Il sentimento di galleggiare, d’essere alleviato dal peso che portavo, liberato della mia propria pesantezza, un sentimento a priori irrazionale e d’altronde ambivalente, costeggiando l’allegria animale e gloriosa di aprire il mondo…”, etc.
Il Novecento è dei figli
Non c’è più il “padre archetipo” - il padre padrone, la divaricazione essendo stata introdotta dai baby boomers degli anni 1960 - ed è un bene ovviamente. Ma su questa ovvietà Leclair innesta una produttiva diversificazione tra la letteratura dell’Ottocento e quella del Novecento, spartiacque la “Lettera al padre” di Kafka. La questione risolvendo in altro modo dell’incompatibilità fra creazione e procreazione. La “Lettera al padre”, arguisce, “fa di tutta l’opera di Kafka, compreso il «Diario», una pietra angolare del XXmo secolo, dominato dalla letteratura dei figli, come il precedente lo era stato dalla letteratura dei padri (l’immenso Hugo dispiegato su tutta la mappa dei generi letterari)”. Partendo, per quanto riguarda la Francia, da Rimbaud, “Una stagione all’jnferno”, e includendo Proust, “in attesa che la madre muoia per costruire la cattedrale di cui aveva tanto sognato con lei”, Céline, che adotta come nome quello di battesimo della nonna, o Gide (“Famiglie, vi odio!”), e Beckett o Bataille, “Mia madre”, “Il colpevole”, “Il piccolo”. Fino a Houellebecq, l’“Estensione del dominio della lotta”: “Mio padre è morto un anno fa. Non credo a questa teoria seconda la quale si diventa realmente adulti alla morte dei genitori”. Con Victor Hugo naturalmente, che le paternità se le inventa anche adottive, fittizie, nei “Miserabili”. Ma più meravigliandosi di Balzac, “questo grande reazionario che è non di meno la pietra angolare di tutte le modernità letterarie e sociologiche”: “Attraverso il personaggio grandioso di «Papà Goriot» ha saputo rivelare il movimento di rimpatrio di Dio nell’uomo nel momento stesso in cui si produceva… Un padre divinizzato nella Parigi del 1835, la città assolutamente cinica e scombussolata” dopo le ubriacature di rivoluziione e restaurazione, con l’impero nel mezzo. Il padre “dal lato della bontà, del sacrificio, di ciò che si chiama l’amore”, anche sul letto di morte, quando l’adorata figlia non si cura di farsi vedere: “I padri devono sempre dare per essere felici. Dare sempre, è ciò che fa che si è padri”.            
Bertrand Leclair, Petit éloge de la paternité, Folio pp. 111 € 2


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