Soldati spiega se stesso – fa
autoanalisi. Come in tutti i suoi racconti – è la sua maniera di raccontare, in
soggettiva. In questo “Disco rosso” dice che ha “gettato via momenti così”. Ma
non è vero, si compiange per non aver goduto abbastanza.
Nello stesso racconto,
qualche riga più giù, è anche la spiegazione dell’“enigma Soldati”, la “storia
dei rimorsi” che sempre frappone – che si vorrebbe gesuitica di scuola: “Il
rimorso non è mai per azioni che abbiamo commesso o che non abbiamo commesso;
non è per ciò che facciamo; bensì per ciò che fummo, siamo e fatalmente saremo;
non riguarda soltanto il passato, ma anche il futuro. E così, quando riusciamo
a vedere la bellezza, essa è sempre perduta”. Il “rimorso” è l’eterna curiosità
– voglia di essere, disponibilità, godimento, e un po’ di confusione.
Cose
viste, per lo più, ma col filtro della fantasia “irrimediabilmente romanzesca”, anche le storie inevitabili di vini, o filosofia spicciola. La messa c’entra poco, se non
per la dedica che Soldati ha voluto “a don Vittorio Genga, torinese, parroco di
Vezzo in provincia di Novara”, con relativa accettazione, protagonista del racconto
centrale della raccolta. In tutto una trentina di “elzeviri”, considerazioni di
varia umanità, che Soldati aveva pubblicato sul “Corriere della sera” nel
1954-1955. Una trentina di racconti, anche quando si vogliono cose viste, o
filosofia spicciola: Soldati sceneggia ogni cosa.
In “allegro”, il suo tempo,
sebbene sempre si professi perplesso e triste. Di “prosa robusta”, come lo trovava
Croce in una delle sue ultime letture. Con almeno
un pezzo da antologia, per restare sui temi musicali, “Nel nome di Haydn”: il ragazzo
Soldati accompagna al piano il vecchio prete per una sinfonia ridotta a quattro
mani, o della musica che “si vede”.
Mario Soldati, La messa dei villeggianti, Oscar, pp.
256 € 10
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