Uno stravagante straordinario
reportage dal mar Rosso, tra Gibuti,
il deserto sassoso che fungeva da colonia francese, “ora chiamata più
discretamente territorio degli Afar e degli Issa”, due popolazioni (le ex tribù)
che aspettano soltanto la partenza dei militari francesi per accopparsi, e
l’Arabia “deserta”, ancora nel 1970. Popolato da personaggi e eventi talmente veri
- specie quelli crudeli, alla Malaparte, di cui Gary visibilmente indossa le
scarpe - da riuscire inverosimili. A partire dal governatore, Dominique Ponchardier,
collaboratore della prima ora e confidente di De Gaulle, uomo della Resistenza
tutto d’un pezzo, cui i gollisti traditori dell’Oas hanno trucidato un figlio,
forse due, e il fratello ammiraglio, già ambasciatore in Bolivia, dove aveva “salvato
Régis Debray da un’esecuzione sommaria «durante un tentativo di fuga»”, nonché prodigo
alimentatore della Série Noire, la collana classica dei gialli in Francia, per
la quale ha inventato e imposto due parole chiave, “gorilla” e “barbouze”, il
confidente mascherato. Compreso l’irriducibile parà fascistone dell’Oas, la cui
ricerca è all’origine dello sbarco di Gary nella colonia: un “pazzo” sempre fanatico
che Ponchardier ospita. Non i soli, il reportage
è una fioritura di persone e eventi normali-eccezionali. Fino al golpe dell’odierno
sultano dell’Oman Qabus contro il suo proprio padre, che non voleva nessuna
modernità.
L’esito è un inno bizzarro ai
benefici del colonialismo. Non difficile, visto il poi, l’esito delle
indipendenze: “L’avventura colonialista vive qui, a titolo postumo, uno
straordinario momento di autenticità…”. Dove i punti di sospensione segnano l’incredulità
del resistente Gary. Conducendolo poi alla correzione, alla critica del
colonialismo: se l’Africa inciampa o scivola, è che l’Europa non vi ha posto
alcun fondamento - il che non è nemmeno vero, e quindi Gary può oscillare tra
ciò che vede e i principi. Insomma, sempre alla Malaparte, lasciando insoluta,
e anzi pompando, l’ambiguità, etica, politica e storica.
La crudeltà, nel traffico di
esseri umani, vi è raccapricciante. Un arabo-eritreo dell’Asmara, che ora pacioso
nella sua città “intrattiene una bettola”, è stato capitano di “un dhow a vele brune bruciato all’improvviso
all’avvicinamento dei doganieri francesi, mentre l’equipaggio si salvava a
remi”, lasciando “a bordo i resti calcinati di venti ragazzine somale che trasportava
verso i bordelli di Suez e di Alessandria”. Ma, poi, la ricerca del “soldato perduto”,
l’ammutinato Oas, il nazionalismo colonialista e razzista che Gary e
Ponchardier esecrano, si tramuta in un elogio. Con l’elogio del “pied noir”, il
francese d’Algeria irriducibile nazionalista, che si spende nell’impossibile
colonia come cooperante tra gli intrattabili indigeni. Con molte verità
peraltro. C’è perfino il vezzo degli inviati ai fronti di guerra di farsi sequestrare dai nemici, per poterla
poi raccontare meglio.
Sul mar Rosso Gary trasporta il
Golfo Persico di prima del diluvio cinquant’anni fa, e anche meno, nel 1970, prima
della triplicazione del prezzo del petrolio nel 1973. Fra ignudi subacquei alla
ricerca dei rubini, smeraldi, diamanti che Ibn Saud, il fondatore del regno
saudita, aveva fatto disperdere in mare perché li raccolga l’amato figlio premorto,
il primogenito. E panciuti dhows che
contrabbandavano l’oro di cui gli indiani sono ingordi - gli “sceicchi” più
ricchi e prodigali, di Dubai, del Qatar, sono ex contrabbandieri, ancora negli
anni 1970. Mentre Ben Tamur, il sultano dell’Oman spodestato dagli inglesi col
figlio Qabus nel 1970, era uno che si opponeva a ogni modernizzazione, compresa
la luce elettrica. Con un po’ di malinconia, già in questo avventuroso viaggio -
nello Yemen sempre in guerra civile con la moto, in solitario. Ricordando gli “antenati
ebrei” altrove rimossi. Da “collezionista d’anime” – “titolo bizzarro” che il “New
York Times” ha voluto dargli.
Romain Gary, Les trésors de la mer Rouge, Folio, pp.
123 € 2
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