L’orario di
apertura è dalle nove, e bisogna attendere. Si attende in piedi, leggendo le
bacheche, scambiando sorrisi con gli altri visitatori che invece vanno, tutti
con una valigetta rigida, per le loro pratiche negli altri uffici al piano, non
soggetti a orario se non quello di lavoro, il corridoio trasformando in open space ben ambrosioano, d’accenti e
operosità. Alle nove in punto i due funzionari ascoltano la richiesta e, senza
consultarsi, all’unisono chiedono: “Lei è sindacalista? Un dipendente non può
avere il documento. La dichiarazione dello stato di crisi è pubblica, ma
possono averne copia i rappresentanti dell’azienda e i sindacalisti”.
I due, sempre
all’unisono, non oppongono però resistenza: “Quali sindacalisti? Anche uno
confederale, sì”. Renato della Cgil, che si occupa della stampa, sicuramente
si presterà. Ma non risponde. Sarà presto, conviene ritentare, aspettando nel
corridoio vuoto. Solo animato dai primi visitatori che escono dalle stanze,
sorridenti, e scambiano saluti, mentre altri subentrano, a incastro perfetto,
tutti simili, con la ventiquattrore.
Quando il
compagno Renato non risponde alla seconda o terza chiamata, l’idea viene di
chiedere in segreteria. Renato c’è, ma è in riunione. Fino a quando la
segretaria non sa: “Non sarà breve. Chiama fra un’ora. Fra mezzora, se vuoi”.
Insomma, è più che altro una sensazione sgradevole, come quando in mare un cirro
lontano porta burrasca. L’idea di recuperare qualcuno della rappresentanza
sindacale aziendale contribuisce anch’essa al nervosismo: sono tutti aziendalisti.
Uno di quelli che entrano ed escono con la valigetta fa la sua parte, un rosso,
che la butta in braccio al suo compagno e urla sarcastico: “È leggerina, neh!”,
cercando con l’occhio complicità alla sua involuta insinuazione.
I due
funzionari dell’ufficio rapporti con i cittadini stanno sempre ai loro posti,
corretti. Sulle loro teste due ritratti danno dignità alla funzione: da una
parte il presidente, col suo piglio monacale, dall’altra il presidente del
consiglio Prodi, che per distrazione, e per l’apprensione crescente, rimanda
per un attimo al cantante Drupi, del resto suo anagramma, senza naturalmente
la capigliatura cavallina. Un tentativo di fare conversazione per ingannare
l’attesa, essendo l’unico visitatore, cade: i funzionari rimangono composti,
con gli occhi bassi. La decisione di porre urgenza sulla segreteria alla Cgil
infine s’impone e riesce, Renato viene al telefono. È rassicurante, ci penserà
lui, “ma non subito, in tarda mattinata”. Consiglia di aspettare al ministero:
“Appena ho un minuto scappo: da qui sono due minuti”. E insomma, la cosa si
risolve. Se non che, fra una cosa e l’altra, sono già le undici, e la targhetta
alla porta dell’ufficio rapporti con i cittadini è precisa: l’orario è fino
alle 12,30.
Lo scoramento
rigurgita. Ma alla richiesta alla romana di conferma dell’orario, “allora c’è
tempo solo fino alle 12,30?”, uno dei due precisa: “L’orario di lavoro è fino
alle 14, fino alle 12,30 quello di sportello”. Il rovello allora insorge di
cercare una via d’uscita nella segreteria del buon ministro, che in fondo è un
compagno pure lui, seppure del partito di Prodi, e ha un addetto stampa amico.
Una raccomandazione? Non proprio. Che comunque non si può fare. L’addetto
stampa non c’è, ma il suo vice è sollecito, un funzionario del ministero:
“Telefonare è inutile, hanno deciso che può avere le carte solo chi può
dimostrare un interesse diretto. Chi può dimostrarlo legalmente. Hanno fatto una
causa per questo, una vertenza di lavoro, il sindacato li ha assistiti. No,
vogliono soltanto l’autorizzazione allo straordinario di sportello fino alle
14. C’è un’indennità di sportello, sa?” E ha disposto l’autorizzazione allo
straordinario.
L’ultima
attesa è stata nervosa. I due funzionari erano sempre al loro posto, ma dopo le
12,30 ogni minuto si è fatto contare. È passata così l’una. Un’altra chiamata,
dal corridoio ormai deserto, non ha avuto esito: Renato non ha risposto, né la
segreteria. Finché alle 13,25 Renato è uscito dall’ascensore. Gioviale come
sempre, un po’ affannato, “ci ammazziamo di riunioni”. La sua vista ha infine
animato i due funzionari che immobili aspettavano. Non gli hanno neanche
chiesto un’identificazione. Hanno compulsato l’indice degli stati di crisi e
hanno individuato il numero e il giorno della “Gazzetta Ufficiale” che ne ha dato
pubblicazione. Uno dei due ha poi reperito in una stanza a fianco la
“Gazzetta”. L’altro ha fatto la fotocopia. Ha acceso la macchina delle
fotocopie. Che ha imposto un’altra attesa di una decina di minuti, forse meno ma sembrano tanti, seppure con la certezza infine che il documento è ottenuto. Che era sulla “Gazzetta Ufficiale”, in fondo queste porte aperte sono state una punizione, giusta.
Sono poche righe di
testo, su una facciata. Il decreto effettivamente dichiara la casa editrice in
stato di crisi per ramo d’azienda. Una licenza mascherata di licenziamento: riconoscendo
il governo lo stato di crisi, la gloriosa casa editrice ha potuto licenziare
mille poligrafici e cento giornalisti. Un modo come un altro di aggirare
l’articolo 18, basta non dirlo.
È un decreto
di due articoli, e non sembra contestabile. Renato concorda: “Li fanno bene,
sono studiati da grandi giuristi”. Né d’altra parte c’erano illusioni da
coltivare. Solo che, essendo disoccupati, uno a il problema la mattina di
trovarsi un’occupazione del tempo.
Nessun commento:
Posta un commento