“Di questi signori si è
adesso perduta la razza”, dei ciclopi, in avvio alla “Vita di Polifemo”, “come p.e. de’ lillipuziani, de’ pigmei, de’
cinocefali, de’ centauri, de’ lapiti, e via discorrendo: delle cui genealogie
se ci rimane alcuna notizia dobbiamo ringraziarne I poeti.. Solamente delal stirpe
dei satiri conserviamo qualche rampollo”. Belli p.e.
Una scelta di lettere
scherzose e di racconti umoristici. Cinque dei racconti che Belli scrisse per “Lo
Spigolatore”, la rivista letteraria di Roma degli anni 1830. A partire dal
1834, quando la direzione fu assunta da Giacomo Ferretti, intimo e duraturo amico
di Belli, traduttore, librettista di Verdi, Rossini, Donizetti. Sono un racconto
lungo, “Vita di Polifemo”, interrotto al quinto capitolo, quando Ferretti lasciò
“Lo Spigolatore”, “Storia cefalica”, “Un fenomeno vivente”, “Il ciarlatano”, “Ricetta
per mascherata”. Una sorta di “Belli
prima di Belli”, del poeta romanesco. In realtà sono coevi alla febbrile fabbrica
dei sonetti, ma le sole sue cose pubblicate – I sonetti si conoscevano ma non
si pubblicavano.
Sono prose ilari, ma già
velate dal disincanto. Dell’illusorietà dei Lumi, dopo Napoleone e l’occupazione,
dell’erudizione, della stessa scienza e del diritto, del tempo, dello spazio. Molto
umorismo Belli fa sulle prose di umorismo professo, pedantesco, che gli veniva
di leggere. Già nella “Vita di Polifemo” ride, dice, come ridevano gli dei di
Omero, per non piangere. E molto poetava, in italiano perché si pubblicasse, da
“giornalista”, contro i puristi. Nell’introduzione si legge un sonetto
spassosissimo contro il “barocco stile” e la pronuncia alla ferrarese che certo
purismo voleva allora più consona all’italiano, con le doppie invertite: “Le
dolci notte onde con tanto affeto\ turbi il sillenzio di tranquila note…”.
Belli è autore di un’opera enaurme. Di versi italiani che sono tre
volte i duemila e passa sonetti in romanesco per cui è celebre. Di uno
“Zibaldone” in dieci grossi tomi, necessariamente per lo più inediti. Di diari
di viaggio, di recensioni e saggi critici, e di una corrispondenza alluvionale. Era
un personaggio a Roma. Gogol, che lo incontrò nel salotto dei principi russi
Wolkonsky, ne parlerà con ammirazione a Sainte-Beuve.
E si può dire letterato nato.
Fondò nel 1813, a 22 anni, benché orfano e di pochi mezzi, l’Accademia
Tiberina, col principe di Metternich – proprio lui, giovane e bello, e naturalmente
antinapoleonico - e il camaldolese Mauro Cappellari, che sarà papa Gregorio XVI.
Sposando nel 1816 Maria Conti, ricca vedova del conte Pichi, di tredici anni sua
maggiore, avrà tutto l’agio di dedicarsi unicamente alla scrittura, con qualche
impiego erratico, giusto per la gente.
Il facilone apparente dei
sonetti romaneschi era anche di una cultura énaurme.
Curioso e aggiornato di tutte le novità d’Italia, per esempio di cosa scriveva
Porta a Milano, su cui si documentava con frequenti viaggi. Risalendo alle sue
letture attraverso lo “Zibaldone”, si sanno ricchissime, aggiornate, perfino
alla moda, in particolare di giornali e riviste, italiane, europee (il “Courier
français”, il “Journal des Débats”, la “Edinburgh Review” liberale di Stendhal,
il “Blackwood’s Magazine” sempre di Edimburgo, conservatore, che però
pubblicava Shelley, Coleridge, Wordsworth), e del “New York Herald”. Appassionato fin dagli esordi della lingua, di una lingua letteraria viva, che nella Roma di allora era introvabile.
Questa scelta è di prose “umoristiche”,
giusto il titolo, ma non della mano sinistra. E anzi robuste, la capacità dei sonetti di sceneggiare il quotidiano è anche qui. Con l’introduzione di Pietro Gibellini,
belliano massimo, recente curatore dei “Sonetti” in edizione critica, e la
contestualizzazione e una cronologia del curatore della scelta, Eduardo Ripari
– con larghi riferimenti al “Belli e la
sua epoca” di Edoardo Ianni, mezzo secolo fa.
Giuseppe Gioachino Belli, Prose umoristiche, Bur, pp. 459 € 12,50
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