sabato 3 agosto 2019

Belli prima di Belli


“Di questi signori si è adesso perduta la razza”, dei ciclopi, in avvio alla “Vita di Polifemo”,  “come p.e. de’ lillipuziani, de’ pigmei, de’ cinocefali, de’ centauri, de’ lapiti, e via discorrendo: delle cui genealogie se ci rimane alcuna notizia dobbiamo ringraziarne I poeti.. Solamente delal stirpe dei satiri conserviamo qualche rampollo”. Belli p.e.
Una scelta di lettere scherzose e di racconti umoristici. Cinque dei racconti che Belli scrisse per “Lo Spigolatore”, la rivista letteraria di Roma degli anni 1830. A partire dal 1834, quando la direzione fu assunta da Giacomo Ferretti, intimo e duraturo amico di Belli, traduttore, librettista di Verdi, Rossini, Donizetti. Sono un racconto lungo, “Vita di Polifemo”, interrotto al quinto capitolo, quando Ferretti lasciò “Lo Spigolatore”, “Storia cefalica”, “Un fenomeno vivente”, “Il ciarlatano”, “Ricetta per mascherata”.  Una sorta di “Belli prima di Belli”, del poeta romanesco. In realtà sono coevi alla febbrile fabbrica dei sonetti, ma le sole sue cose pubblicate – I sonetti si conoscevano ma non si pubblicavano.
Sono prose ilari, ma già velate dal disincanto. Dell’illusorietà dei Lumi, dopo Napoleone e l’occupazione, dell’erudizione, della stessa scienza e del diritto, del tempo, dello spazio. Molto umorismo Belli fa sulle prose di umorismo professo, pedantesco, che gli veniva di leggere. Già nella “Vita di Polifemo” ride, dice, come ridevano gli dei di Omero, per non piangere. E molto poetava, in italiano perché si pubblicasse, da “giornalista”, contro i puristi. Nell’introduzione si legge un sonetto spassosissimo contro il “barocco stile” e la pronuncia alla ferrarese che certo purismo voleva allora più consona all’italiano, con le doppie invertite: “Le dolci notte onde con tanto affeto\ turbi il sillenzio di tranquila note…”.
Belli è autore di un’opera enaurme. Di versi italiani che sono tre volte i duemila e passa sonetti in romanesco per cui è celebre. Di uno “Zibaldone” in dieci grossi tomi, necessariamente per lo più inediti. Di diari di viaggio, di recensioni e saggi critici, e di una corrispondenza alluvionale. Era un personaggio a Roma. Gogol, che lo incontrò nel salotto dei principi russi Wolkonsky, ne parlerà con ammirazione a Sainte-Beuve.
E si può dire letterato nato. Fondò nel 1813, a 22 anni, benché orfano e di pochi mezzi, l’Accademia Tiberina, col principe di Metternich – proprio lui, giovane e bello, e naturalmente antinapoleonico - e il camaldolese Mauro Cappellari, che sarà papa Gregorio XVI. Sposando nel 1816 Maria Conti, ricca vedova del conte Pichi, di tredici anni sua maggiore, avrà tutto l’agio di dedicarsi unicamente alla scrittura, con qualche impiego erratico, giusto per la gente.
Il facilone apparente dei sonetti romaneschi era anche di una cultura énaurme. Curioso e aggiornato di tutte le novità d’Italia, per esempio di cosa scriveva Porta a Milano, su cui si documentava con frequenti viaggi. Risalendo alle sue letture attraverso lo “Zibaldone”, si sanno ricchissime, aggiornate, perfino alla moda, in particolare di giornali e riviste, italiane, europee (il “Courier français”, il “Journal des Débats”, la “Edinburgh Review” liberale di Stendhal, il “Blackwood’s Magazine” sempre di Edimburgo, conservatore, che però pubblicava Shelley, Coleridge, Wordsworth), e del “New York Herald”. Appassionato fin dagli esordi della lingua, di una lingua letteraria viva, che nella Roma di allora era introvabile.
Questa scelta è di prose “umoristiche”, giusto il titolo, ma non della mano sinistra. E anzi robuste, la capacità dei sonetti di sceneggiare il quotidiano è anche qui. Con l’introduzione di Pietro Gibellini, belliano massimo, recente curatore dei “Sonetti” in edizione critica, e la contestualizzazione e una cronologia del curatore della scelta, Eduardo Ripari – con larghi riferimenti  al “Belli e la sua epoca” di Edoardo Ianni, mezzo secolo fa.   
Giuseppe Gioachino Belli, Prose umoristiche, Bur, pp. 459 € 12,50

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