martedì 6 agosto 2019

Il miraggio di Dante islamico

Si ripropone la stessa traduzione di Asìn Palacios del 1993, con la stessa introduzione di Carlo Ossola già riproposta dal Saggiatore-Net dieci anni fa. Secondo Umberto Eco, una della sue ultime “Bustine di Minerva” sull’“Espresso”, una riedizione opportuna: “Ha ancora senso leggere questo libro, dopo che tante ricerche successive gli hanno in gran parte dato ragione? Lo ha, perché è scritto piacevolmente e presenta una mole immensa di raffronti tra Dante e i suoi “precursori” arabi. E lo ha ai giorni nostri quando, turbati dalle barbare follie del fondamentalismi musulmani, si tende a dimenticare i rapporti che ci sono sempre stati tra la cultura occidentale e la ricchissima e progredita cultura islamica dei secoli passati”.
Senz’altro una bella lettura, piena di cose. Ma non, come si era detto, di una specie di Dante plagiario. Mentre è altrettanto vero che “viaggi nell’aldilà” usavano nei secoli ex bui anche nella  tradizione cristiana – qualcuno scovato dallo stesso Eco, che li ricorda nella “Bustina”. Ora si tende a dire che anche questi erano copiati dai musulmani, ma questo Asín Palacios non dice, sapendo che il contrario può essere vero. I due mondi non vivevano separati, ecco, questo sì.
In realtà Asìn Palacios non identifica “analogie impressionanti tra il testo dantesco e vari testi della tradizione islamica”, come Eco comincia col dire – né “è ormai assodata l’influenza di molte fonti musulmane sull’autore della Divina Commedia”, come dice il sommario. “Influenza” è parola ambigua: Dante sapeva di molte cose, quante fonti non ha? Ma faceva le differenze. Le faceva nette, era uomo di dottrina, e di parte. Soprattutto metteva da parte la conoscenza e la carità di fronte a un nemico politico, uno armato – non si può dire, è inutile, a uno che ti taglia la testa, ti disintegra con una bomba, ti spara col kalashnikov, “siamo fratelli”, “ci conosciamo”.
Eco invita  “a non dimenticare i rapporti profondi tra la cultura araba e quella occidentale”. Mica per colpa di Dante. Il problema non sono le fonti arabe, o catare, o ellenistiche, di Dante, il problema è usare queste fonti per dire che l’islam non ci è nemico, quando proclama la guerra santa. Asín Palacios è stato rimesso in circolo negli anni 1990 per questo. E ha promosso così tanti studi – Maria Corti soprattutto – in questa ottica.
Lo stesso Eco purtroppo si colloca in quest’alveo: “Ricordo che alla fine degli anni Ottanta avevamo organizzato a Bologna una serie di seminari sugli interpreti “deliranti” di Dante, e quando ne era uscito un libro (“L’idea deforme”, a cura di Maria Pia Pozzato) i vari saggi si occupavano di Gabriele Rossetti, Aroux, Valli, Guénon e persino del buon Pascoli, tutti accomunati come interpreti eccessivi, o paranoici, o stravaganti del divino poeta. E si era discusso se porre nella schiera di questi eccentrici anche Asín Palacios. Ma si era deciso di non farlo perché ormai tante ricerche successive avevano stabilito che Asín Palacios forse era stato talora eccessivo ma non delirante. Dante aveva copiato, ma era un vezzo, un peccato veniale: “Tanti autori grandissimi hanno porto orecchio a tradizioni letterarie precedenti (si pensi, tanto per fare un esempio all’Ariosto) e tuttavia hanno poi concepito un’opera assolutamente originale”.
Questo assolutamente non dice il prelato spagnolo, filologo arabista. Che non scopriva nulla e non lo pretendeva, solo sapeva di più della cultura araba e portava altri esempi – non, per esempio, “Il libro della Scala di Maometto”, riscoperto successivamente.
Il suo titolo era onesto: “La escatologìa musulmana en la Divina Comedia”. L’uso che ne fece strumentale, da gesuita di maniera. Si volle Dante improvvisamente islamico per il sesto centenario, nel 1921, a ridosso del revival ispanoislamista del primo Novecento, rispolverando la “Escatologia”, pubblicata originariamente nel 1919. Una novità tale da offuscare ogni altro contributo alla ricorrenza, di cui finì per monopolizzare l’attenzione, in Italia e fuori. Anche se completamente “fuori tema”.
Asín Palacios lega il viaggio di Dante a quelli oltreterreni di Maometto, i mi’rāg, un genere di favolello popolare di cui riporta varie redazioni – hadīţ, detti - sebbene tutte apocrife. E alle dottrine neoplatoniche e mistiche del filosofo mussulmano Ibn Masarra, il fondatore della “filosofia ispanomussulmana”, di cui il gesuita egli era lo studioso. Già nei suoi lavori su Masarra Asín Palacios aveva sottolineato, dice qui, “la stretta relazione di somiglianza” dell’ascesa di Dante e Beatrice nel Paradiso con quella di un filosofo e di un mistico descritta da un discepolo del filosofo, il sufī Ibn Arabi, in un’opera intitolata “Futūhāt”.
Asín Palacios trascrive vari hadīţ dei mi’rāğ di Maometto, tutti svelti, alcuni di poche righe, con l’arcangelo Gabriele. In uno di questi Maometto incontra, dopo gli usurai, “alcune donne appese per i capelli”: sono “le donne che non nascosero il loro viso e la loro chioma agli sguardi degli estranei”. Ci sono anche i “bevitori di vino” e le “cantanti”, e quelli che non fanno le “abluzioni rituali”. Il trattato fu corredato nel 1924 da un volume di “Storia e critica di una polemica”, di polemiche e contro polemiche, che sarà aggiornato nel 1943.
Un’opera e un’operazione col sapore di altri tempi: il religioso arabista, l’autoelogio, la patria comunque, e il duca d’Alba. È “per generosa iniziativa dell’eccellentissimo duca d’Alba” che il libro è tradotto in inglese, per diffonderne il messaggio nel grande mondo angloamericano – il XVIImo duca d’Alba era mezzo inglese, Jacobo Fitz-James Stuart y Falcò (il XVIIImo duca, la sua figlia Cayetana, si è risposata sette o otto anni fa, a 85 anni, con un giovanotto, una maschera irrigidita di plastica, dopo essere stata a lungo famosa come suocera del torero Ordoñez). L’appendice di polemiche e contropolemiche registra 50 favorevoli, contrari 20, di cui 15 italiani, incerti 3 (tra cui un P. E. Pavolini - Paolo Emilio, il dotto poeta filologo padre del fascistissimo Alessandro). I favorevoli Asίn Palacios dice “una settantina”, alcuni li conta doppi o tripli. L’arabista Giuseppe Gabrieli è censito con cinque interventi, di cui tre favorevoli e due contrari. Come allo stadio: l’accoglienza critica è quella dei tifosi alla partita.
Il libro è ponderoso, ma non dimostra niente. I mi’rāğ, ascesi – il miraggio è originariamente ascesi, salita dell’anima al cielo - nell’oltretomba sono tutti più o meno a somiglianza di quello di Dante, cioè sono uno schema ricorrente. Non c’è naturalmente, non ci può essere, raffronto poetico, di linguaggio o anche soltanto di personaggi, eventi, “materiali”. Ibn Arabi, il più  analizzato da Asín Palacios, l’islamista Gianroberto Scarcia dice “estatico rappresentante massimo dell’«anacreontismo mistico»”. Anche se si deve a lui in particolare, più articolata tra i tanti, “la dottrina di un Dio «femminile», e l’idea della donna come rappresentazione della Bellezza divina” (introduzione a “Poesia dell’islam”, Sellerio, 2004). Quanto al neoplatonismo, se ne è ritrovato talmente tanto nella patristica, smaltita la sbornia scolastica, molto prima del concilio di Firenze e di Gemisto Pletone, da riempire intere filosofie ispanomussulmane. Il Mediterraneo, nell’avvertenza non perenta di Pirenne, era unitario. Lo è stato fino all’insorgenza islamoturca, parallela allo spostamento del baricentro europeo al Nord con la Riforma. Senza contare che, quando se ne farà la storia, il regno di Granada alle cui fonti Asίn Palacios attinge fu un mondo a parte nel mondo islamico, se non già una sorta di Atlantide.
Carlo Ossola, in una densissima prefazione (settanta note per tredici paginette di testo ) esalta Asίn Palacios (e Maria Corti) smontandolo. Asίn Palacios è confermato dal “Libro della Scala”, spiega, che però fa capo alla Bibbia, sulla quale si è innestato un vasto immaginario medievale. Fra le “simmetrie di struttura… vivacemente segnalate da Asίn Palacios e accolte da Maria Corti”, della “Commedia” coi mi’rāğ, manca “il lascito funzionale più consistente”, il contrappasso, che caratterizza la “Commedia” e che Dante menziona proprio al canto di Maometto e Alì: “La dichiarazione dantesca del contrappasso (“Così s’osserva in me lo contrappasso) è hapax che sigilla proprio il canto XXVII dell’Inferno, ove si s’accampano appunto le figure di Maometto e di 'Alī”. Ossola non si lascia sfuggire una bella trovata - è autore anche di un “Dante, poeta del Novecento” – ma con juicio.
Miguel Asín Palacios, Dante e l’islam, Luni, pp. 740 € 32


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