martedì 13 agosto 2019

Italiani nella Grande Guerra al fronte per Vienna

Nella Grande Guerra 120 mila italiani – italofoni – di Trento, Trieste e dintorni hanno combattuto per l’impero. Quasi tutti in Galizia, nella tremende trincee contro la Russia, che, oscurate dall’epopea della Marne e di Verdun sul fronte francese, non furono meno tormentate e catastrofiche: “In soli cinque mesi, da agosto a dicembre 1914, la Galizia inghiotte due milioni di uomini, fra morti, feriti e prigionieri, nel solo settore austriaco”. E in che modo: “Armate ottocentesche con trombe e cavalleria leggera, vanno al massacro contro le mitragliatrici: marce senza rifornimenti, treni di soldati alla cieca contro il nemico, fiumi rossi di sangue, montagne di cavalli sventrati, reclute pazze allo sbando, ospedali da campo al collasso, fughe in massa” – la guerra comparata è istruttiva.   
Rumiz ne va alla ricerca partendo dal nonno materno, che, a differenza del fratello “italianissimo”, che sarà dopo la guerra ministro e sindaco di Trieste, fu fino all’ultimo un fedele soldato di Francesco Giuseppe. Di lui, che tornò e sarà fervente fascista, e dei tanti che non tornarono Rumiz ricostruisce per lampi la storia. Per cenni, impressioni, spezzoni, e tuttavia una “vera storia”, oltre che leggibile.
L’argomento eccezionale – eccezionalmente poco o nulla trattato dagli storici di professione, benché di grande interesse – e la narrazione fratta di Rumiz si combinano con l’evidenza delle narrazioni storiche classiche. Lo scrittore di viaggi - unico nella letteratura italiana, che non sa viaggiare, Otto e Novecento compresi (ce n’è stato qualcuno tra i navigatori e fino al Settecento) – ha qui un flair da classico-classico, alla Tacito.
Questo nella prima parte. Perché il libro si compone di due parti. La prima, in una Galizia-Polonia dai cieli blu di Prussia, dai tramonti fiammeggianti, e giornate giallo oro di una vegetazione sorridente, tra polacchi un po’ antisemiti ma parecchio valorosi, più e meglio dei cavalieri teutoni, finisce col furto della documentazione accumulata in mesi di viaggi e di lavoro sul Frecciarossa Napoli-Roma. Dopo l’inevitabile depressione, Rumiz rifà la ricerca, risollevato da una giornata calorosa con gli amici trentini che ne condividono gli interessi. Ma questo è il solito viaggio nella nostalgia degli irredenti, il vagheggiamento di una Mitteleuropa che però finiranno per dire razzista, oppressiva, tedesco-ungarica.
C’è così un Rumiz anche, eccezionalmente, di malumore: con se stesso, con l’italianità – l’impoverimento di Trieste – e pure con i crucchi. Anche se il vecchio impero era plurale, aveva una (sua) efficienza, e faceva di Trieste il centro del suo Sud. “Nelle vecchie stazioni”, per esempio a Trieste, nota a un certo punto, “nessuno può toglierti l’idea che dopo il finis Austriae l’Europa sia diventata più lontana, la marineria meno importante, il paese meno ordinato, l’edilizia meno solida, la burocrazia meno onesta, l’istruzione meno capillare, il fisco meno equanime e la manutenzione della cosa pubblica più approssimativa”. Si parte insomma col solito maldipancia triestino: il ruolo imperiale perduto, il cosmopolitismo, la centralità, tutto sacrificato all’identità. Col fascismo dopo la liberazione, che tutto l’accumulo disperde o distrugge.
Di fatto, la Mitteleuropa non era un bel mondo. E Rumiz poco dopo lo dice. Di crucchi violenti e razzisti, che i giovani che andavano a morire per l’imperatore interpellavano “italiano-porco-cane-merdoso-vigliacco-lavativo”, nei termini corrispondenti in tedesco. Nel “secondo libro” facendolo spiegare da Quinto Antonelli in brevi battute: l’impero era plurale in superficie, nei fatti opprimente, era censorio, clericale, poliziesco, riconosceva le lingue ma come ghetti, comandavano tedeschi e magiari, con brutaltà, gli italiani erano disprezzati, come i boemi e gli sloveni, in trentino “imperversava la pellagra e l’aspettativa media di vita era di anni trentatré”. Finendo per riconoscere, toscanamente, che “noi qui si fa più fatica di altri a capire chi siamo. Sulla frontiera ogni viaggio è nelle pieghe dell’anima”. Non per caso “qui a Nordest, nell’angolo in alto a destra nella carta geografica, speleologi e psichiatri fanno in fondo lo stesso lavoro”. E “l’inutile strage” del papa ha portato la libertà, dopo i colpi di coda reazionari di Mussolini e Hitler.
Molti i contributi anche di triestini, memorialisti della Grande Guerra o storici, che Rumiz utilizza: Emilio Stanta, Alfonso Cazzolli, Mario Cermak. 
Fra le tante pubblicazioni nel centenario della Grande Guerra, forse la più convinta (necessaria) e convincente. Benché contorta, e fondamentalmente vetero nazionalista. Distruggendo gli imperi, l’Europa in certo modo si dissolveva. Ma dopo non c’è stato solo il fascismo. Ovvero c’è stato, ma come colpo di coda antidemocratico, in tutto ancien régime, per un vetero nazionalismo – ma è tribalismo – alla cui evidenza, nell’Ucraina della stessa “rivoluzione arancione”, nell’amata Sarajevo dopo lalluvione del 2014, il volenteroso viaggiatore deve arrendersi. Con la politica democratica (elettiva) trasformata in veicolo di arricchimento e corruzione, e gli odi risorgenti, contro gli ebrei, e ogni altro. La balcanizzazione, insomma. Un morbo, teme Rumiz scrivendo da ultimo al figlio Michele, che ha infettato l’intera Europa.
Il problema, non detto, stando a Trieste o anche fuori, è che farsene degli slavi. Perché, poi, gli slavi, i russi compresi, sono lì e non se ne vanno. Li vogliamo e li diciamo buoni vicini, come tutti i vicini, bisogna farsene una ragione. Ma prima bisognerebbe conoscerli, che ancora fanno terra incognita – e chissà perché hanno preso terre e case agli istriani, prima di farsi la pelle tra di loro.

Paolo Rumiz, Come cavalli che dormono in piedi, Feltrinelli, pp.263, ill. € 9.50 (€ 9,90 in panino con altro libro Feltrinelli)

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