La signora Trandàfilo
chiuse le imposte – Trandàfilo è nome di Savinio, ma è anche reale. Si aggirò
per le stanze in penombra con un senso dimenticato di libertà, per le stanze
che lo sgombero aveva infine liberate. Non vide la polvere, che tanto la irritava,
non vide i pesciolini dei libri, né le macchie sui muri dietro le
librerie. Non accese la luce e quindi non vide. Assaporò la sua vittoria in
quel tramonto, di dentro come di fuori, vittoria contro se stessa, anzitutto,
contro le abitudini.
Ci aveva messo
trent’anni a scoprire che lui non era quello che non sembrava. Affettuoso,
insistente nelle smancerie, e casalingo. La sua passione era scrivere: poesie,
racconti, teatro, soggetti di cinema, perfino romanzi, saggi di ogni bordo,
tutto pur di scrivere. Cose che nessuno leggeva perché nessuno le pubblicava,
ma questo era il suo unico cruccio, che nessuno leggesse quello che scriveva.
Che nessuno capisse. Non lui, non lei, ma quello che lui scriveva. Non i figli
che non venivano ma i libri che non uscivano - no, questa la cancellò, la
signora Trandàfilo odiava i bambini, le piacevano solo fra i due e i sei anni,
l’aveva sempre terrorizzata, da quando aveva undici anni, l’idea che qualcosa
le crescesse dentro. Scriveva dappertutto, sui più piccoli pezzi di carta, in
una grafia contorta e minuscola che lui stesso aveva difficoltà a decifrare,
nei luoghi più impensati, sul marciapiede, sui mezzi, mentre sciava, al bagno
naturalmente.
Il periodo che fu a
Milano era felice evidentemente perché poteva scrivere tutto il santo giorno e
la notte. Un traditore, era. Un vigliacco, un mollusco lussurioso. Sempre in
fregola, e poi costantemente la tradiva in ogni piega di pensiero. Immaginando
donne floride perché lei era minuta, sboccate, volgari, aggressive perché lei
era bene educata, madonne e carrieriste, e sempre disponibili, con omacci di
ogni tipo, figuri che mai avevano frequentato e nemmeno incontrato. Non che lei
sapesse. Mai aveva voluto leggere quelle elucubrazioni. E tuttavia avevano
pesato, o se avevano pesato.
Un tempo aveva voluto
imitarlo, l’aveva imitato, per dimostrargli che quella sua mania di scrivere
dopotutto non era niente. Couplets, fantasie, racconti brevi,
minimi, filosofemi, illuminazioni, tutto ciò in cui lui si dilettava come Dante
alla “Commedia” lei aveva scritto facile nei pochi minuti del tempo libero.
Fino all’epigramma che la sua amata rivista “Nove100” aveva prontamente
pubblicato:
“L’onor tu m’hai scippato,
disse la moglie al marito,
che fotterla voleva,
e andò al caffé, il solito,
nel bagno lurido,
lo slip inalberando
a caccia di un ganzo”,
che provocò il mutismo
di un anno, intollerabile, roba da corna anche impossibili, anche fuori del
bagno.
Nemmeno la morte l'aveva
liberata. Il giorno ch’era morto era stato come tutti gli altri. Con la pena
delle pratiche, il funerale, le telefonate da fare e da rispondere, la denuncia
alla banca, all’assicurazione, alla cassa mutua, il commercialista, le volture,
i notai. Aveva cambiato il nome sul portone e sulla cassettina, aveva ripreso
liberamente il suo, ma nulla era in realtà cambiato. Il suo, di lui, ora le
piaceva di più e subito si era preoccupata di rimetterlo, prima ancora di
rientrare in casa: la signora Trandàfilo suona buffo ma vuole dire rosa. Sì, in
greco rosa si dice triantafillos. L’aveva scoperto in viaggio col
caro estinto, sempre pieno di attenzioni, sorprese, scoperte, il solito
scoppiettio di momenti magici. Lo scambio di dentali, la d sonora al posto
della t sorda, è un adattamento alla De Mita, ma perfino la pronuncia dei
burini d’Irpinia le divenne piacevole (in realtà i greci pronunciano il greco
alla De Mita, oggi come probabilmente all’età di Omero, n.d.C.).
Era un nome classico,
sapeva di una genealogia di duemila anni - o di mille, se si opta per l’eredità
bizantina. Che si sarebbe estinto con lei. Era una grande voluttà, un brivido,
che la proiettava all’inizio del secolo, del Novecento beninteso, col
cocchiere, il casiere, il fattore, la cuoca, la ragazza di camera e le
cameriere pronti al suo cenno, e le lunghe operazioni, a ogni tramonto, di
accensione delle luci, dei camini, dei bracieri. O a metà Ottocento, fra i
cristalli, i decolletés e le sostanze inebrianti - la donna allora era
cagionevole. Non andava più in là dell’Ottocento, il solido impianto borghese
di quel secolo sano la rassicurava.
Avevano infine portato
via le carte e si cominciava a respirare. Aveva estimatori, colleghi
probabilmente, ma chissà di che, non sapeva nemmeno che cosa esattamente
insegnasse. Ogni due-tre giorni andava all’università, perlomeno così diceva,
al dipartimento di letteratura, dove effettivamente rispondeva al telefono e lo
conoscevano. Ma chissà se vi insegnava, se era professore. Quelle visite erano
state l’effetto più sgradevole della morte. Gente secca, polverosa, rugosa,
gonfia, che voleva sopratutto parlare. E di che? Di cose che nessuno aveva
visto e a nessuno interessavano. Anche studenti, cioè studentesse, ragazze. Le
più insistenti, come infoiate. Non dubitava che se le fosse fatte, da quando
l’avevano castrato per via della prostata e non eiaculava nemmeno più era
diventato perfino sfrontato. Per curiosità, e per saggiare quelle affettazioni
d’interesse, mise infine le mani nelle montagne di foglietti, e lì c’erano,
come lei ben sapeva, le gigantesse poppute, i grandi culi, le bocche voraci.
Vennero anche librai,
offrendo cifre consistenti. Erano interessati sopratutto alle copie delle prime
edizioni dei libri che si era fatti pubblicare da un suo amico, probabilmente,
anzi sicuramente, a sue spese, copie che esistevano ancora in gran copia. E
altre prime edizioni, che pare ne avesse in abbondanza, di scrittori veri,
Moravia, Bevilacqua, Fallaci, Biagi. Vennero anche editori, funzionari di case
editrici in gara tra loro e affannati, a proporre affari che la signora
Trandàfilo non capiva. Ma infine si erano portati via tutto. Dopo aver pagato,
e anche bene.
Avevano organizzato
mostre e convegni, nelle more della gara, a cui l’avevano invitata, in mezzo a
gente importante, Andreotti, Spadolini, Maurizio Costanzo. Riunioni
noiosissime, ma in posti e in alberghi splendidi fuori stagione, l’Isabella di
Forìo, il Villa d’Este a Cernobbio, il San Domenico a Taormina, il Villa Igieia
a Palermo. Tanta felicità le aveva dato a volte le lacrime. Da ragazza piangeva
sempre, anche al cinema, poi più nulla. Le facevano anche una specie di corte:
le mandavano regali, anche preziosi. Tutto per quelle carte. Che lei avrebbe
dato gratuitamente, pur di liberarsene. E invece avevano voluto pagarle a tutti
i costi. Aveva deciso il commercialista: “Le dia a chi paga di più subito”. Il
sottinteso era, il commercialista come gli avvocati e i notai sono secchi di
cuore, che lei non avendo eredi doveva soltanto occuparsi d’incassare il più
possibile subito. E quando erano venuti a prenderseli, libri e carte, non aveva
voluto saperne: li aveva lasciati soli in casa, tutto il tempo di cui avevano
avuto bisogno. Una cosa buona insomma il signor Trandàfilo morendo l’aveva fatta, sbarazzarla anche
delle sue fantasie.
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