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venerdì 16 agosto 2019

Lacrime di felicità


La signora Trandàfilo chiuse le imposte – Trandàfilo è nome di Savinio, ma è anche reale. Si aggirò per le stanze in penombra con un senso dimenticato di libertà, per le stanze che lo sgombero aveva infine liberate. Non vide la polvere, che tanto la irritava, non vide i pesciolini dei libri, né le macchie sui muri dietro le librerie. Non accese la luce e quindi non vide. Assaporò la sua vittoria in quel tramonto, di dentro come di fuori, vittoria contro se stessa, anzitutto, contro le abitudini.

Ci aveva messo trent’anni a scoprire che lui non era quello che non sembrava. Affettuoso, insistente nelle smancerie, e casalingo. La sua passione era scrivere: poesie, racconti, teatro, soggetti di cinema, perfino romanzi, saggi di ogni bordo, tutto pur di scrivere. Cose che nessuno leggeva perché nessuno le pubblicava, ma questo era il suo unico cruccio, che nessuno leggesse quello che scriveva. Che nessuno capisse. Non lui, non lei, ma quello che lui scriveva. Non i figli che non venivano ma i libri che non uscivano - no, questa la cancellò, la signora Trandàfilo odiava i bambini, le piacevano solo fra i due e i sei anni, l’aveva sempre terrorizzata, da quando aveva undici anni, l’idea che qualcosa le crescesse dentro. Scriveva dappertutto, sui più piccoli pezzi di carta, in una grafia contorta e minuscola che lui stesso aveva difficoltà a decifrare, nei luoghi più impensati, sul marciapiede, sui mezzi, mentre sciava, al bagno naturalmente.
Il periodo che fu a Milano era felice evidentemente perché poteva scrivere tutto il santo giorno e la notte. Un traditore, era. Un vigliacco, un mollusco lussurioso. Sempre in fregola, e poi costantemente la tradiva in ogni piega di pensiero. Immaginando donne floride perché lei era minuta, sboccate, volgari, aggressive perché lei era bene educata, madonne e carrieriste, e sempre disponibili, con omacci di ogni tipo, figuri che mai avevano frequentato e nemmeno incontrato. Non che lei sapesse. Mai aveva voluto leggere quelle elucubrazioni. E tuttavia avevano pesato, o se avevano pesato.
Un tempo aveva voluto imitarlo, l’aveva imitato, per dimostrargli che quella sua mania di scrivere dopotutto non era niente. Couplets, fantasie, racconti brevi, minimi, filosofemi, illuminazioni, tutto ciò in cui lui si dilettava come Dante alla “Commedia” lei aveva scritto facile nei pochi minuti del tempo libero. Fino all’epigramma che la sua amata rivista “Nove100” aveva prontamente pubblicato:
“L’onor tu m’hai scippato,
disse la moglie al marito,
che fotterla voleva,
e andò al caffé, il solito,
nel bagno lurido,
lo slip inalberando
a caccia di un ganzo”,
che provocò il mutismo di un anno, intollerabile, roba da corna anche impossibili, anche fuori del bagno.
Nemmeno la morte l'aveva liberata. Il giorno ch’era morto era stato come tutti gli altri. Con la pena delle pratiche, il funerale, le telefonate da fare e da rispondere, la denuncia alla banca, all’assicurazione, alla cassa mutua, il commercialista, le volture, i notai. Aveva cambiato il nome sul portone e sulla cassettina, aveva ripreso liberamente il suo, ma nulla era in realtà cambiato. Il suo, di lui, ora le piaceva di più e subito si era preoccupata di rimetterlo, prima ancora di rientrare in casa: la signora Trandàfilo suona buffo ma vuole dire rosa. Sì, in greco rosa si dice triantafillos. L’aveva scoperto in viaggio col caro estinto, sempre pieno di attenzioni, sorprese, scoperte, il solito scoppiettio di momenti magici. Lo scambio di dentali, la d sonora al posto della t sorda, è un adattamento alla De Mita, ma perfino la pronuncia dei burini d’Irpinia le divenne piacevole (in realtà i greci pronunciano il greco alla De Mita, oggi come probabilmente all’età di Omero, n.d.C.).
Era un nome classico, sapeva di una genealogia di duemila anni - o di mille, se si opta per l’eredità bizantina. Che si sarebbe estinto con lei. Era una grande voluttà, un brivido, che la proiettava all’inizio del secolo, del Novecento beninteso, col cocchiere, il casiere, il fattore, la cuoca, la ragazza di camera e le cameriere pronti al suo cenno, e le lunghe operazioni, a ogni tramonto, di accensione delle luci, dei camini, dei bracieri. O a metà Ottocento, fra i cristalli, i decolletés e le sostanze inebrianti - la donna allora era cagionevole. Non andava più in là dell’Ottocento, il solido impianto borghese di quel secolo sano la rassicurava.
Avevano infine portato via le carte e si cominciava a respirare. Aveva estimatori, colleghi probabilmente, ma chissà di che, non sapeva nemmeno che cosa esattamente insegnasse. Ogni due-tre giorni andava all’università, perlomeno così diceva, al dipartimento di letteratura, dove effettivamente rispondeva al telefono e lo conoscevano. Ma chissà se vi insegnava, se era professore. Quelle visite erano state l’effetto più sgradevole della morte. Gente secca, polverosa, rugosa, gonfia, che voleva sopratutto parlare. E di che? Di cose che nessuno aveva visto e a nessuno interessavano. Anche studenti, cioè studentesse, ragazze. Le più insistenti, come infoiate. Non dubitava che se le fosse fatte, da quando l’avevano castrato per via della prostata e non eiaculava nemmeno più era diventato perfino sfrontato. Per curiosità, e per saggiare quelle affettazioni d’interesse, mise infine le mani nelle montagne di foglietti, e lì c’erano, come lei ben sapeva, le gigantesse poppute, i grandi culi, le bocche voraci.
Vennero anche librai, offrendo cifre consistenti. Erano interessati sopratutto alle copie delle prime edizioni dei libri che si era fatti pubblicare da un suo amico, probabilmente, anzi sicuramente, a sue spese, copie che esistevano ancora in gran copia. E altre prime edizioni, che pare ne avesse in abbondanza, di scrittori veri, Moravia, Bevilacqua, Fallaci, Biagi. Vennero anche editori, funzionari di case editrici in gara tra loro e affannati, a proporre affari che la signora Trandàfilo non capiva. Ma infine si erano portati via tutto. Dopo aver pagato, e anche bene.
Avevano organizzato mostre e convegni, nelle more della gara, a cui l’avevano invitata, in mezzo a gente importante, Andreotti, Spadolini, Maurizio Costanzo. Riunioni noiosissime, ma in posti e in alberghi splendidi fuori stagione, l’Isabella di Forìo, il Villa d’Este a Cernobbio, il San Domenico a Taormina, il Villa Igieia a Palermo. Tanta felicità le aveva dato a volte le lacrime. Da ragazza piangeva sempre, anche al cinema, poi più nulla. Le facevano anche una specie di corte: le mandavano regali, anche preziosi. Tutto per quelle carte. Che lei avrebbe dato gratuitamente, pur di liberarsene. E invece avevano voluto pagarle a tutti i costi. Aveva deciso il commercialista: “Le dia a chi paga di più subito”. Il sottinteso era, il commercialista come gli avvocati e i notai sono secchi di cuore, che lei non avendo eredi doveva soltanto occuparsi d’incassare il più possibile subito. E quando erano venuti a prenderseli, libri e carte, non aveva voluto saperne: li aveva lasciati soli in casa, tutto il tempo di cui avevano avuto bisogno. Una cosa buona insomma il signor Trandàfilo  morendo l’aveva fatta, sbarazzarla anche delle sue fantasie.


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