Fake news – È sempre più sinonimo di “social”. Carlo Ginzburg ne trova
l’anticipazione nel “Principe” di Machiavelli, al cap. XVIII: “El vulgo ne va
preso con quello che pare e con lo evento della cosa, e nel mondo non è se non
vulgo”.
Flaiano – Curiosa “La solitudine del satiro”, e la
frequentazione che la stessa raccolta documenta dei caffè alla moda, Rosati
eccetera, con Moravia, Carlo Levi, Antonioni, De Sica, Pasolini, Arbasino, dei
festival di Venezia, con feste, e delle presentazioni di libri. Nonché con
Fellini, che non andava ai caffè ma col quale Flaiano collaborò molto, per cose importanti.
L’isolamento
era politico, cosa che allora contava. Flaiano non era comunista e non era
democristiano, e probabilmente non era in sintonia con lo stesso Pannunzio, col
quale faceva “Il Mondo” – una posizione che sullo stesso giornale così spiegava
nel 1956, sotto il titolo “Lettera al Direttore”: “Io dunque, limitandomi ad un
culto privato della Libertà, non sono inserito nei miei tempi”. Si era soli
all’epoca se non si era di un gruppo politico, influente. Flaiano come Fellini
non ne faceva parte, e li prendeva in giro, ma Fellini era estroverso.
Natalia Ginzburg – “Al tempo di Natalia Ginzburg
la letteratura italiana era prevalentemente un club maschile, Perciò lei voleva
scrivere come un uomo”. Così Joan Acocella “ripropone” Natalia Ginzburg sul
“New Yorker”.
Ironia – L’italiano ne è incapace. Di
praticarla sì, di capirla no? Se letta. Maria Corti lo sanciva, seppure interrogativamente,
a conclusione della lunga introduzione alle opere di Flaiano in edizione
Bompiani, al volume “Scritti postumi”, a proposito dell’isolamento perdurante
dello scrittore a quindici anni dalla morte: “Che la ragione derivi sempre,
come negli anni Cinquanta, da qualcosa che è essenziale e tipico della
mentalità italiana, l’allarmante incapacità di cogliere e assimilare ironia e
satira nei propri riguardi”. In una con la scarsezza, in Italia, di “memorialisti
ironico-satirici”. Che non si direbbe: non c’è probabilmente lingua più ironica
e satirica dell’italiano, di un’ironia e satira di più largo uso nella parlata
quotidiana o popolare. Anche la tradizione letteraria, di ironia e satira, non
è male. Fino a Manzoni, nel pieno del serioso Ottocento, con quei “Promessi
sposi” che Pirandello pone a pilastro, col “Don Chisciotte”, dell’umorismo. E poi nel Novecento, tra
Svevo, Gadda, Savinio, lo stesso Sciascia, non ché in un autore di grande popolarità
quale Camilleri. Ma, è vero, non c’è attenzione, o capacità o interesse di lettura,
nella critica. A parte Walter Pedullà, e
Beniamino Placido a suo tempo, chi altro?
Leopardi – Leopardi romanziere mancato è nota tesi
di Calvino, su suggerimento di Giulio Bollati, di Leopardi cultore. In un testo
del 1953, “Mancata fortuna del romanzo italiano”, scritto per la Rai che non lo
mandò mai in onda, Calvino include Leopardi tra i “romanzieri” italiani,
seppure mancato. Pubblicando poi il testo, aggiunse in nota un “taglio” che
aveva in un primo tempo effettuato “per non anticipare il tema di un saggio che Bollati aveva in
mente di scrivere”, in cui si chiede retoricamente chi avrebbe potuto-dovuto essere
il padre del romanzo italiano, Alfieri, Foscolo, Porta, Belli, Rossini, Verdi,
e si risponde: “Forse nessuno di questi. Per me il padre ideale del nostro
romanzo sarebbe stato uno che parrebbe più lontano di ogni altro dalle risorse
di quel genere: Giacomo Leopardi. In Leopardi erano vive infatti le grandi
componenti del romanzo moderno, quelle che mancavano a Manzoni: la tensione avventurosa,
l’assidua ricerca sociologica introspettiva, il bisogno di dare nomi e volti di
personaggi ai sentimenti e ai pensieri suoi e del secolo. E poi la lingua: la
via ch’egli indicò fu quella dei massimi effetti coi minimi mezzi, che è sempre
stato il gran segreto della prosa narrativa”. Per “avventure” Calvino ricorda l’islandese
solitario tra le foreste dell’Africa, la notte tra i cadaveri nello studio di
Federico Ruysch, quella sulla tolda di Colombo. “Ma è soprattutto di Leopardi
il racchiudere nel giro d’un luogo noto,
d’un paese, d’un ambiente, il senso del mondo”.
Salvo poi, nei
tanti occasionali ritorni su Leopardi, metterne in rliievo la curiosità e la
mentalità scientifiche, di un “Leopardi copernicano”, che si attiene alla verità
della cosa, alla prova.
#metoo – Per fare Montalbano, spiega il regista
Sironi in “Camilleri sono”, la raccolta di testimonianze e saggi in onore dello
scrittore che “Micromega” aveva pubblicato un anno fa e riedita in morte, erano
rimasti in lizza tre attori. Ma uno dei tre non fece il provino: “Uno dei tre,
che come fisico assomigliava un po’ al commissario Ingravallo (a Pietro Germi
in “Un maledetto imbroglio”, il film tratto dal “Pasticciaccio” di Gadda, nel
quale Camilleri identificava allora il suo Montalbano, n.d.r.), non venne
perché la moglie la sera prima gli aveva dato un pugno in un occhio e il giorno
dopo aveva l’occhio nero”. Chi era non importa – Sironi non lo dice: “Si dice
che fosse Giancarlo Giannini, ma non era lui” – ma avrebbe fatto un’altra vita.
Nievo – È il beniamino di Calvino, che più
volte lo ricorda con grandi elogi. Quello più entusiasta lo fa parlando di
Manzoni: “Pesò pure su chi romanziere era davvero, come il Nievo, che s’imbrogliò nelle panie
moraleggianti e linguistiche manzoniane; lui che conosceva cos’era avventura, e
storia familiare, e grandezza e decadenza sociale, e vita umana e presenza della
donna nella vita dell’uomo, e paesaggio natale, e trasfigurazione della memoria
in continua presenza reale: il generoso, il giovane il fluviale Nievo” – nello
scritto del 1953 rimasto inedito (ora in “Mondo scritto e mondo non scritto”), “Mancata
fortuna del romanzo italiano”.
Pistacchi – È la proteina vegetale che fa così
brillanti i persiani e i siciliani? Si direbbe, a credere alla “leggenda” di cui
in Francis R. Burton, “L’Oriente islamico”, p. 183, secondo la quale “prima dei
giorni del faraone (quello di Mosè), gli Egiziani si nutrivano di pistacchi, un
alimento che li rendeva vivaci e arguti”. Il Faraone cattivo li passò ai
fagioli, e in effetti gli egiziani hanno perso in vivacità e arguzia.
Romanzo – È storico e non può essere geografico
per Calvino, ostile al localismo e principalmente a Verga, - al “regionalismo
descrittivo, una piaga che ancor oggi funesta la nostra narrativa”. Era di questo avviso nel 1953, prima che, con le fiabe, si avvicinasse ai luoghi e ai gerghi. Ma
mantenne sempre la pregiudiziale, contro il linguaggio “orale”, mimetico – secondo
Camilleri, “Camilleri sono”, 19, “l’oralità detestava anche perché lui non
sapeva parlare”.
Calvino sapeva
anche perché i luoghi vanno esclusi: “Il vero romanzo vive nella dimensione
della storia, non della geografia: è avventura umana nel tempo, e i luoghi – i
luoghi il più possibile precisi e amati – gli sono necessari come concrete
immagini del tempo; ma porli come contenuto del romanzo, questi luoghi, e gli
usi locali, e il «vero volto» di questa o quella città o popolazione, è un
controsenso” – Macondo per esempio, o la contea immaginaria del Sud di
Faulkner, e la stessa Vigàta perché no?
Altra singolare
veduta d Calvino in materia è che il romanzo è ottocentesco - “Sorte del
romanzo”, 1957 (ib.). Poi ci sono Thomas Mann, “ma sporgendosi da un’estrema
ringhiera dell’Ottocento”, il racconto “Il vecchio” di Faulkner, e Brecht - “ma
un Brecht della narrativa non c’è, purtroppo”. Niente altro.
Sherlock Holmes – È già in Cicerone, al lemma
“signum”, segno, in “De Inventione”, I, 47, e nel ciceroniano sant’Agostino,
“De doctrina christiana”, II, 1,1. Conan Doyle conosceva Cicerone e sant’Agostino?
Probabilmente sì, a sua insaputa – aveva studi classici, era medico.
Conosceva anche Virgilio, che ha “segni”,
e Celso, il primo dei medici – cui si deve il “congetturale”? Nicola Gardini,
“Le 10 parole latine”, ne fa ampia disamina, seppure non negando la paternità o
adozione del signum a Sherlock Holmes
– non lo menziona.
Traduzione – “Tradurre è il sistema più
assoluto di lettura”, Italo Calvino, “Sul tradurre”. Dei particolari, parola per
parola, espressione per espressione?
Viaggiare – Flaiano, sedentario (ma
ogni anno faceva un viaggio in Canada, con Andrea Andermann: era per la stabilità),
si domanda in “Una e una notte”: “Perché altrove la vita dovrebbe essere
differente? Signore, l’universo è così povero di fantasia”. E nel “Diario degli
errori”. “La noia e la malinconia aspettano dovunque si vada per divertimento,
per cambiare. Solo il luogo dove viviamo non ci fa pensare alla morte, al
fallimento, alla vecchiaia. Turismo, triste invenzione.. Non c’è salute fuori
dalla propria grotta. Stare fermi”.
letterautore@antiit.eu
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