Un dandy giovanilistico, di
abbigliamento ricercato come Baudelaire, e come lui high tory, conservatore, anzi legittimista, innovativo, lo sguardo aperto,
di sfida, che sarà di Rimbaud. Un classicista in epoca romantica, con la quale
è in perpetua aspra rottura. In fama di eccentrico. Solitario. Il che è vero. Il matrimonio sciolse dopo pochi anni, alla morte del figlio che ne era nato. Vivrà solo, col fratello Tommaso, pittore (peraltro ottimo, nei quadri di
famiglia che la mostra espone) con famiglia, usciva ogni giorno solo, chiuso in
carrozza, non dava confidenza a nessuno. Ma non per misantropia: era in lite
con la sua città, che non ne riconobbe l’esistenza.
Il legittimismo gli farà
perdere gli incarichi di cui Ferdinando di Borbone l’aveva gratificato: bibliotecario
della Biblioteca Civica reggina e Ispettore delle Antichità della Calabria
Ultra. Ma poté continuare a vivere nel palazzo di famiglia, tre piani sulla centrale
via Garibaldi, alcune sale del quale
aveva fatto affrescare di soggetti classici e adibito a museo.
Antonino Zumbo registra nel
catalogo “una sola apparizione pubblica, nel 1876, quando accompagna il carro
funebre che trasporta la salma di Bellini all’imbarco per Catania”.
Molto religioso, educato dai
gesuiti, politicamente non del tutto codino ma legittimista. Per questo in contrasto
anche con le altre famiglie che contavano in città, compresi i Nava materni. In
un epigramma, il XXX, “La costanza”, bolla i reggini di volubilità, che giubilano
per l’espulsione dei gesuiti dal Regno nel 1767, per il loro ritorno nel 1851, e
per Garibaldi nel 1860 e la nuova espulsione.
Impubblicato, se non per le
“Opere scelte” del 1893. E per il poema di Amsterdam, “Xiphias”, il pesce spada,
la caccia al pesce spada nello Stretto – il tema, in breve, e l’epos di “Moby
Dick”, qualche anno prima di Melville. Un poemetto di 117 esametri in tre
canti. Un’opera che Vitrioli rivedrà continuamente, nelle sette edizioni in
vita e nell’ottava postuma. La caccia al pesce spada occupa il primo canto, con
riferimenti a Polibio e Oppiano di Apamea, e a Nicola Partenio Giannettasio,
gesuita napoletano del secondo Seicento. Con interventi delle divinità del
mare, classiche e locali (Fata Morgana), e poi col trasporto della preda a riva
e l’affissione di ex voto al tempio
di Atena Tritonide. Il secondo canto è di Glauco e Scilla, che Circe per
gelosia muta in mostro marino. Il terzo è una sorta di sagra del pesce spade:
un banchetto popolare in spiaggia, con canti e memorie.
Uno dei suoi rarissimi viaggi aveva portato Vitrioli giovane a Pompei. È nel ricordo di questa visita che scrisse le
“Veglie pompeiane”, nella lingua del cardinal Bembo – che era stato anche lui a
Messina, a fine ‘400, per studiarvi il greco con Costantino Lascaris, e poi in corrispondenza
con letterati locali, quali l’astronomo e storico Maurolico, e il suo ex segretario
Niccolò Bruno: la fine della città raccontata da alcuni personaggi storici.
Diego Vitrioli. Un raffinato collezionista nella
Calabria dell’Ottocento,
Museo Archeologico Nazionale Reggio Calabria
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