Settanta poesie, sotto un
titolo derivato da Coleridge, “Since then, at an uncertain hour”, dopo di
allora, ad ora incerta, sul passato che ritorna indelebile. Più una ventina
pubblicati su “La Stampa”, tra il settembre 1984 e il gennaio 1987. Variate,
qualcuna anche distesa. E le traduzioni: da Heine, dal “Buch der Lieder”, con “L’envoi”
di Kipling, l’addio, e la ballata scozzese “Sir Patrick Spense”, su una
partenza e un ritorno. Il titolo è di un verso, ma Levi lo riprende nel breve scritto
introduttivo. E lo spiega: delle “cose come le nuvole”, cioè “difficili da
spiegare”.
“Tu
forse non l’avevi mai pensato,\ Ma il sole sorge pure a Crescenzago”, sono i
primi versi della raccolta. Un Primo Levi ilare, quale era di carattere –
“napoletaano” nel seguito: “A Crescenzago ci sta una
finestra,\ E dietro una ragazza si scolora,\ Ha sempre l’ago e il filo nella
destra,\ Cuce e rammenda e guarda sempre l’ora….” Perfino spensierato nelle traduzioni. Anche in
rima (in –uzzo…), e in ottonari, alla Vispa
Teresa.
Nel 1943, prima della
persecuzione, Primo Levi è un altro: lettore di Rabelais, amante degli spazi
aperti, socievole, amichevole. Subito poi si passa a fine 1945, alla
liberazione da sopravvissuto e allo strazio della memoria, in una sinistra rima
baciata: “Lunga la schiera nei grigi mattini,\ Fuma la Buna dai mille camini”.
E appresso, il 10 gennaio 1946, sotto il titolo “Shemà”, l’avvio della
preghiera serale degli ebrei pii, il passo celebre, che lo segnerà:
“Considerate se questo è un uomo,\ Che lavora nel fango\ Che non conosce pace\
Che lotta per mezzo pane\ Che muore per un sì o per un no”.
È un poeta cauto, Primo Levi,
“in media non più di una volta l’anno”, ma costante, quasi obbligato. Forse per
il dna: la poesia “è nata certamente prima della prosa”, premette a mo’ di
scusa per avere osato, “a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio
genetico”. Con una concezione della poesia come lievito, o espressione
“naturale” – innaturale, per Levi, rispetto alla ragione dominante. Sicuramente
come condanna: condanna della storia, per un insopprimibile, malgrado il forte
civismo, rigurgito di rifiuto. Con molti apologhi o parabole, in cui a parlare
sono animali (elefante, corvo, formiche, talpa, dromedario, topo, chiocciola),
alberi (ippocastano, agave), il ponte, la polvere, la partita a scacchi. Di
stratificata cultura, con elementi familiari della tradizione ebraica, molto
Dante, molto Novecento. Di malinconia sommessa, dietro il garbo. Mesta anche la
celebrazione, fra tanto ripudio letterario nella tradizione ebraica, degli
“Ostjuden”, gli ebrei orientali, poveri e ignoranti – una sorta di
rivendicazione totale, da assimilato respinto nell’ebraismo (insensibile al
sionismo, anche per le forme che ha preso in Israele, Levi si è fatto un
dovere, “dopo”, di recuperare la storia e la religione nelle quali non era
cresciuto). Non liriche, di un poeta che parla con se stesso, ma riflessioni e
moniti.
Il pessimismo è anche degli
apologhi, di animali o cose, di un pessimismo radicale, seppure rassegnato, non
aggressivo – “e i cieli si convolvono perpetuamente invano” (“Stelle nere”).
Cita Rabelais, “A vous parle, compaings de galle”, agli ebbri “di
parole,\ Parole-spada e parole-veleno \ Parole-chiave e grimaldello,\
Parole-sale, maschera e nepente”. Ma in orizzonte chiuso: “Il luogo dove
andiamo è silenzioso\ o sordo. È il limbo dei soli e dei sordi”. Recupera
Catullo, “Possano i soli cadere e tornare…”, ma a fine del “Tramonto di
Fossoli”, il primo campo di concentramento. Il canto è del corvo. Lo irritano
pure i vecchi partigiani, “diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi”, e
nemici di che?, “ognuno è nemico di ognuno”.
Un grido: “Ma che cosa pretendete
da noi?” Ma un corpo a corpo con se stesso, in realtà, specie nelle poesie
degli ultimi mesi. Con gli elementi, con la storia, ma sempre con se stesso.
Mai disteso, si direbbe col “male di vivere” - anche se dice in una lettera
coeva di non apprezzare, se non disprezzare, Pavese, l’opera e l’uomo. Con un
conto sempre aperto. Con i viventi e con i morti. Succede a Primo Levi come a
tutti i salvati, di restare prigionieri della memoria: “Era in fuga, e nessuno
lo inseguiva”, in “Fuga”. E nel successivo “Superstite”, l’impossibiità di
esserlo, pur senza colpa. Una costante, pagina per pagina, un’ossessione. La
persecuzione dell’elefante – la memoria dell’elefante, ma senza sorriso, “per
noi quando si cade non c’è salvezza”. E: “l’avvoltoio che mi rode ogni sera\ ha
il volto di ognuno”. Contro Carducci, ma solo apparentemente: “Inaudita violenza\
la violenza di farmi nonviolento”.
Cesare Segre, nella lettura
che accompagna la raccolta, rileva “un di più” di disperanza nell’elemento
parenetico”, esortativo, ammonitorio (retorico): “Levi, così sobrio nel giudicare e
restio a parlare, in queste poesie si spinge più avanti”.Un di più
rispetto alle poesie anteposte a “Se questo è un uomo” e a “La tregua”, e
all’altra riportata come canzone di un Martin Fontasch, in “Se non ora quando”.
Di un pessimismo più che leopardiano, avvolto nel dolore. Nei racconti oltre
che nelle poesie. Segre ne scova in tutta l’opera: “Più volte Levi
arieggia con terribile scherzo leggi fisiche o principi filosofici, per
esprimere questa terribile onnipresenza del dolore”.Tanto più che “oggi poi la
scienza”, nella quale Levi era versato, “ci sottopone misure temporali immense,
cataclismi cosmici che nessun mito antico osò concepire” – qui riflessi in “Le
stelle nere” e in “Nel principio”.
Sono terribili i “14 versi” di
auguri alla moglie Lucia Morpurgo, cui poi la raccolta sarà dedicata, per il
sessantesimo compleanno il 12 luglio 1980: “Abbi pazienza, mia donna
impaziente,\ Tu macinata, macerata, scorticata,\ Che tu stessa ti scortichi un
poco ogni giorno,\ Perché la carne nuda ti faccia più male”. Una condizione
ipocondriaca che dovrà quanto alla convivenza? Con un “Autobiografia” molto
tiresiano, nel senso di Camilleri al teatro Greco di Siracusa - composto
peraltro, nel 1980, nel nome di Empedocle a Agrigento.
Di tutt’altro tono, e di
qualità, le “traduzioni”: da Heine, da Kipling (“L’envoi”), e la ballata
scozzese”Sir Patrick Spens – più due, da Rilke e da von Berggruen, incluse tra
i versi propri. Fortini le dice “versioni da testi che non esistono”, se non
per “alcune strutture, sequenze, architetture della sintassi,
figure”. Ma la resa è fortemente coinvolgente, e in tono con gli autori.
È la riedizione della raccolta rifatta da Garzanti, il primo editore, nel
1990, dopo la morte di Levi. Che rispetto all’edizione originaria, del 1984,
comprende quindi le composizioni successive, dal settembre 1984 al gennaio
1987. Rimpolpata come nel 1990 con le letture critiche di Segre, Fortini e
Raboni.
Primo Levi, Ad
ora incerta, Garzanti, pp. 145 € 15
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