lunedì 5 agosto 2019

Primo Levi si scortica vivo

Settanta poesie, sotto un titolo derivato da Coleridge, “Since then, at an uncertain hour”, dopo di allora, ad ora incerta, sul passato che ritorna indelebile. Più una ventina pubblicati su “La Stampa”, tra il settembre 1984 e il gennaio 1987. Variate, qualcuna anche distesa. E le traduzioni: da Heine, dal “Buch der Lieder”, con “L’envoi” di Kipling, l’addio, e la ballata scozzese “Sir Patrick Spense”, su una partenza e un ritorno. Il titolo è di un verso, ma Levi lo riprende nel breve scritto introduttivo. E lo spiega: delle “cose come le nuvole”, cioè “difficili da spiegare”.
“Tu forse non l’avevi mai pensato,\ Ma il sole sorge pure a Crescenzago”, sono i primi versi della raccolta. Un Primo Levi ilare, quale era di carattere – “napoletaano” nel seguito: “A Crescenzago ci sta una finestra,\ E dietro una ragazza si scolora,\ Ha sempre l’ago e il filo nella destra,\ Cuce e rammenda e guarda sempre l’ora….” Perfino spensierato nelle traduzioni. Anche in rima  (in –uzzo…), e in ottonari, alla Vispa Teresa.
Nel 1943, prima della persecuzione, Primo Levi è un altro: lettore di Rabelais, amante degli spazi aperti, socievole, amichevole. Subito poi si passa a fine 1945, alla liberazione da sopravvissuto e allo strazio della memoria, in una sinistra rima baciata: “Lunga la schiera nei grigi mattini,\ Fuma la Buna dai mille camini”. E appresso, il 10 gennaio 1946, sotto il titolo “Shemà”, l’avvio della preghiera serale degli ebrei pii, il passo celebre, che lo segnerà: “Considerate se questo è un uomo,\ Che lavora nel fango\ Che non conosce pace\ Che lotta per mezzo pane\ Che muore per un sì o per un  no”.
È un poeta cauto, Primo Levi, “in media non più di una volta l’anno”, ma costante, quasi obbligato. Forse per il dna: la poesia “è nata certamente prima della prosa”, premette a mo’ di scusa per avere osato, “a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico”. Con una concezione della poesia come lievito, o espressione “naturale” – innaturale, per Levi, rispetto alla ragione dominante. Sicuramente come condanna: condanna della storia, per un insopprimibile, malgrado il forte civismo, rigurgito di rifiuto. Con molti apologhi o parabole, in cui a parlare sono animali (elefante, corvo, formiche, talpa, dromedario, topo, chiocciola), alberi (ippocastano, agave), il ponte, la polvere, la partita a scacchi. Di stratificata cultura, con elementi familiari della tradizione ebraica, molto Dante, molto Novecento. Di malinconia sommessa, dietro il garbo. Mesta anche la celebrazione, fra tanto ripudio letterario nella tradizione ebraica, degli “Ostjuden”, gli ebrei orientali, poveri e ignoranti – una sorta di rivendicazione totale, da assimilato respinto nell’ebraismo (insensibile al sionismo, anche per le forme che ha preso in Israele, Levi si è fatto un dovere, “dopo”, di recuperare la storia e la religione nelle quali non era cresciuto). Non liriche, di un poeta che parla con se stesso, ma riflessioni e moniti.
Il pessimismo è anche degli apologhi, di animali o cose, di un pessimismo radicale, seppure rassegnato, non aggressivo – “e i cieli si convolvono perpetuamente invano” (“Stelle nere”). Cita Rabelais, “A vous parle, compaings de galle”, agli ebbri “di parole,\ Parole-spada e parole-veleno \ Parole-chiave e grimaldello,\ Parole-sale, maschera e nepente”. Ma in orizzonte chiuso: “Il luogo dove andiamo è silenzioso\ o sordo. È il limbo dei soli e dei sordi”. Recupera Catullo, “Possano i soli cadere e tornare…”, ma a fine del “Tramonto di Fossoli”, il primo campo di concentramento. Il canto è del corvo. Lo irritano pure i vecchi partigiani, “diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi”, e nemici di che?, “ognuno è nemico di ognuno”.
Un grido: “Ma che cosa pretendete da noi?” Ma un corpo a corpo con se stesso, in realtà, specie nelle poesie degli ultimi mesi. Con gli elementi, con la storia, ma sempre con se stesso. Mai disteso, si direbbe col “male di vivere” - anche se dice in una lettera coeva di non apprezzare, se non disprezzare, Pavese, l’opera e l’uomo. Con un conto sempre aperto. Con i viventi e con i morti. Succede a Primo Levi come a tutti i salvati, di restare prigionieri della memoria: “Era in fuga, e nessuno lo inseguiva”, in “Fuga”. E nel successivo “Superstite”, l’impossibiità di esserlo, pur senza colpa. Una costante, pagina per pagina, un’ossessione. La persecuzione dell’elefante – la memoria dell’elefante, ma senza sorriso, “per noi quando si cade non c’è salvezza”. E: “l’avvoltoio che mi rode ogni sera\ ha il volto di ognuno”. Contro Carducci, ma solo apparentemente: “Inaudita violenza\ la violenza di farmi nonviolento”.
Cesare Segre, nella lettura che accompagna la raccolta, rileva “un di più” di disperanza nell’elemento parenetico”, esortativo, ammonitorio (retorico): “Levi, così sobrio nel giudicare e restio a parlare, in  queste poesie si spinge più avanti”.Un di più rispetto alle poesie anteposte a “Se questo è un uomo” e a “La tregua”, e all’altra riportata come canzone di un Martin Fontasch, in “Se non ora quando”. Di un pessimismo più che leopardiano, avvolto nel dolore. Nei racconti oltre che nelle poesie. Segre ne scova in tutta l’opera: “Più volte Levi arieggia con terribile scherzo leggi fisiche o principi filosofici, per esprimere questa terribile onnipresenza del dolore”.Tanto più che “oggi poi la scienza”, nella quale Levi era versato, “ci sottopone misure temporali immense, cataclismi cosmici che nessun mito antico osò concepire” – qui riflessi in “Le stelle nere” e in “Nel principio”.
Sono terribili i “14 versi” di auguri alla moglie Lucia Morpurgo, cui poi la raccolta sarà dedicata, per il sessantesimo compleanno il 12 luglio 1980: “Abbi pazienza, mia donna impaziente,\ Tu macinata, macerata, scorticata,\ Che tu stessa ti scortichi un poco ogni giorno,\ Perché la carne nuda ti faccia più male”. Una condizione ipocondriaca che dovrà quanto alla convivenza? Con un “Autobiografia” molto tiresiano, nel senso di Camilleri al teatro Greco di Siracusa - composto peraltro, nel 1980, nel nome di Empedocle a Agrigento.
Di tutt’altro tono, e di qualità, le “traduzioni”: da Heine, da Kipling (“L’envoi”), e la ballata scozzese”Sir Patrick Spens – più due, da Rilke e da von Berggruen, incluse tra i versi propri. Fortini le dice “versioni da testi che non esistono”, se non per “alcune strutture,  sequenze, architetture della sintassi, figure”. Ma la resa è fortemente coinvolgente, e in tono con gli autori.
È la riedizione della raccolta rifatta da Garzanti, il primo editore, nel 1990, dopo la morte di Levi. Che rispetto all’edizione originaria, del 1984, comprende quindi le composizioni successive, dal settembre 1984 al gennaio 1987. Rimpolpata come nel 1990 con le letture critiche di Segre, Fortini e Raboni. 

Primo Levi, Ad ora incerta, Garzanti, pp. 145 € 15


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