La metastasi è
avvenuta specialmente dopo la crisi del 2007, argomentano Sciarrone e Storti.
Ma la lettura della parte analitica rimanda curiosamente all’anticapitalismo d’antan, del tipo: non c’è capitale
onesto. Fertile in Italia fino agli anni 1980. L’anticapitalismo non di
Marx ma di quando c’erano i blocchi, e
l’uno voleva l’altro una mafia.
La mafia è infestante, questo si sa. Se non contrastata. Ed è flessibile. Il Sud ha doti peculiari di flessibilità, per adattamenti obbligati a circostanze da qualche secolo sfavorevoli. E ammettiamo pure che le mafie lo siano. Ma le mafie sono bande, di mentalità duramente tribale, da clan chiuso. E piene di pregiudizi, nonché di paure, quindi circospette. Infettive ma con juicio.Le mafie sono anche ricche, con i più alti margini di profitto immaginabili. E possono permettersi la migliore expertise, in campo finanziario e commerciale (e delle regole europee no, specie dei finanziamenti a fondo perduto e degli abbattimenti fiscali?). Vero. Ma hanno limiti. Cosa che il lettore non percepisce più, da “Gomorra” in poi e fino a questo saggio – anche se Sciarrone, che con Storti condivide l’insegnamento di Sociologia economica a Torino, ha molti studi in proposito.
I due studiosi mettono le mani avanti. I capitalisti, scrivono, al fine di garantirsi l’impunità, “si mobilitano per cambiare la definizione della realtà o per oscurarla, mettendo in atto strategie di negazione o di neutralizzazione, di giustificazione o di normalizzazione, o ancora di vera e propria decriminalizzazione”. Cioè: è così e basta, nessuna critica alla critica. Anche perché, aggiungono, l’infezione sta mutando perfino la percezione morale: il mafioso è un socio come un altro.Ma la mafia è mafia, e deve restare mafia, altrimenti diventa inafferrabile. La corruzione è più vasta delle mafie. L’imprenditoria è più vasta della corruzione. Di fronte alla sindrome “Gomorra”, l’antimafia diventa incerta e regressiva, applicata a un tumore che vince la chirurgia, ancorché fine, e ogni antidoto.Rocco Sciarrone-Luca Storti, Le mafie nell'economia legale. Scambi, collusioni, azioni di contrasto, Il Mulino, pp. 208 € 18
La mafia è infestante, questo si sa. Se non contrastata. Ed è flessibile. Il Sud ha doti peculiari di flessibilità, per adattamenti obbligati a circostanze da qualche secolo sfavorevoli. E ammettiamo pure che le mafie lo siano. Ma le mafie sono bande, di mentalità duramente tribale, da clan chiuso. E piene di pregiudizi, nonché di paure, quindi circospette. Infettive ma con juicio.Le mafie sono anche ricche, con i più alti margini di profitto immaginabili. E possono permettersi la migliore expertise, in campo finanziario e commerciale (e delle regole europee no, specie dei finanziamenti a fondo perduto e degli abbattimenti fiscali?). Vero. Ma hanno limiti. Cosa che il lettore non percepisce più, da “Gomorra” in poi e fino a questo saggio – anche se Sciarrone, che con Storti condivide l’insegnamento di Sociologia economica a Torino, ha molti studi in proposito.
I due studiosi mettono le mani avanti. I capitalisti, scrivono, al fine di garantirsi l’impunità, “si mobilitano per cambiare la definizione della realtà o per oscurarla, mettendo in atto strategie di negazione o di neutralizzazione, di giustificazione o di normalizzazione, o ancora di vera e propria decriminalizzazione”. Cioè: è così e basta, nessuna critica alla critica. Anche perché, aggiungono, l’infezione sta mutando perfino la percezione morale: il mafioso è un socio come un altro.Ma la mafia è mafia, e deve restare mafia, altrimenti diventa inafferrabile. La corruzione è più vasta delle mafie. L’imprenditoria è più vasta della corruzione. Di fronte alla sindrome “Gomorra”, l’antimafia diventa incerta e regressiva, applicata a un tumore che vince la chirurgia, ancorché fine, e ogni antidoto.Rocco Sciarrone-Luca Storti, Le mafie nell'economia legale. Scambi, collusioni, azioni di contrasto, Il Mulino, pp. 208 € 18
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