Bukowski poeta underground,
impiegato alle Poste, scommettitore quasi professionale agli ippodromi, bevitore
incontinente, di un six-pack di birre
a notte, grandi, più liquori di ogni tipo, scannatore anche incontinente, di
conviventi e occasionali, giovani e meno
giovani, purché prosperose, ce lo racconta. Perché una mattina si sveglia e
cambia vita: “Alla mattina era mattina e io ero ancora vivo.
Magari scrivo un romanzo,
pensai.
E lo scrissi”.
Siam a Los Angeles. Ci sono
stati i Watts Riots dei quartieri neri della città, finiti sotto coprifuoco, di
barricate, fuochi, devastazioni, ruberie, decine di morti, e Chimaski-Bukowski niente.
C’è stato l 1968, che in California fu il 1967, e lui niente. Il 12 marzo 1969 si
dimette. Per un po’ non sa che fare, dopo “sette o otto feste selvage”, tra
medici stregoni e bei figli dei fiori, dino al risveglio. Il romanzo è in
libreria subito dopo, nel 1971.
Questo primo Bukowski è già quello che
diventerà, ma ancora in tono minore: un racconto di coppie, anche matrimoniali,
e sbattimenti casuali, di sbronze, scommesse, multe a iosa, arresti perfino, per
ubriachezza molesta, e soperchierie al lavoro, a Los Angeles, una disperazione
la città dispersiva, da postino prima e poi da addetto allo smistamento. Un
maledettismo da liceali, teen-ager. Che palle! penserà il lettore del Bukowski
trasgressivo, ma è quello che il Bukowski vero ha fatto, per quindici anni, a
due riprese, fino a che ne ebbe cinquanta. Scriveva poesie, in numero incalcolabile,
e racconti, per le rivistine underground,
per lo più al ciclostilo. Poi puntò al romanzo: questo.
Un’autobiografia senza
fiocchi, pedestre - realista. Il suo alter ego, Hank Chivaski, fa quello che
Bukowski ha fatto. Beve, ogni notte, scommette, e scopa, anche controvoglia –
“Dio o chi per lui continua a creare donne, e le getta così per strada”.Si
sposa con una bella ragazza texana, che liquida come riccastra – era una
poetessa folk. Fa una figlia con una hippie pacifista, grigia e vecchia, di
spirito, che se ne va con la figlia in una comune. Seppellisce con lacrime vere
la compagna di letto “Betty”, scoppiata coi liquori forti. Fa il postino e l’addetto
alla raccolta, poi l’addetto allo smistamento. Riceve in continuo ammonizioni
scritte, sia il sovrintendente italian,
o nero, o latino, o wasp. Ma si legge d’un fiato: non s’immaginerebbe che la vita alle Poste sia così attraente.
Il maledettismo, il genere su
cui Bukowski narratore ha puntato, è in America farfallone e mai disperato – già
nei beatnick, a ripensarci, Ginsberg,
Kerouac. Climaski-Bukowski è uno che alle corse vince sempre – non sempre, tre
puntate su cinque, due, ma non ce lo fa pesare. Si diverte malgrado tutto,
anche l’ulcera e il rischio di cirrosi, e diverte. Oppure si può mettere così: le
letlere americane, ormai forti in ogni
genere, erano deboli nel maladettismo, giusto un po’ di Henry Miller,
atteggiato, gli hippies erano anche loro figli d mamma, malgrado le droghe e il pansessualismo, e Bukowski ha aperto la strada.
Charles Bukowski, Post Office, Tea, remainders, pp. € 3,75
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