Il tema si vuole romantico,
indagato perciò da tedeschi, ma in chiave positivista. Qui un po’ meno, De
Roberto avendo fatto abiura della sua fiducia nella psicologia, ma ancora saputello,
sistematico. La fine più triste dell’amore – è il primo tema (la raccolta ne
discute sei)? La morte dell’amata, in ordine di peso, di tristezza crescente,
il tradimento, l’abitudine. E così via per gli altri casi: l’abbandono, la
trascuratezza, le gelosia.
L’argomentazione è
settecentesca, “francese” – il modello è sempre Choderlos de Laclos, “Le
relazioni pericolose”. Con molti
francesismi, anche sbagliati – c’è perfino una Mademoiselle de Lafayette.
La chiave è maschilista – ma meno che nel solito De Roberto. Gli altri casi in
realtà non sono esemplari, semplificabili. Eccetto l’ultimo, “L’amore supremo”:
è quello che non si consuma – nel senso
volgare della parola, quello che rimane allo stato di promessa (una sorta di coitus interruptus): “Se amare qualcuno importa quasi
sempre più che odiarlo, giacché chi odia può anche astenersi dal far male,
mentre chi ama infligge sempre dolori e tormenti, la migliore, la vera prova d’amore
sarà appunto questa: rinunziare all’amore”.
Esempi comunque di sofferenze. In chiave personale un’autogiustificazione, seppure non richiesta. Fra
Torquemada, l’amore torturatore, richiamato esplicitamente: “Non facciamo noi l’elogio
dei Torquemada quando, per strappare a qualcuno la verità, lo afferriamo per le
braccia, gli stringiamo le mani come dentro una morsa, gl’infiggiamo nello
sguardo il nostro sguardo rovente?” E i miti: “Le miti nature preferiscono
patire piuttosto che far patire”. L’amore? Un patimento – manca a De Roberto il
rinvio a pathos ma nell’idea c’è.
Francesco De Roberto, La morte dell’amore, Salerno,
remainders, pp. 103 € 4
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