Amore – È tema romantico, nasce e
muore col romanticismo – ma il romanticismo è ben vivo ancora nel secondo
Novecento, per esempio nel neo realismo. Resta nei bordi che D e Roberto
tracciava nel romanzo degli amori di George Sand, “Una pagina nella storia dell’amore”:
“I romantici, dotati di immaginazione fervida e di sensibilità squisita, non
possono esercitare meglio queste facoltà che nelle passioni. E tra le passioni
danno la preferenza all’amore, che è naturalmente, dopo l’amor proprio, il
sentimento più forte e potente, ma esagerando come è loro costume, anzi necessità
del loro temperamento, essi intendono farne la passione sovrana, massima,
unica. Per ottenere questi risultati sono costretti a svuotarlo, a falsarlo, a
confonderlo con altri sentimenti che hanno caratteri molto diversi”.
Il recente Dio di amore dei papi è romantico?
È esercizio eminentemente di
sado-masochismo? Paradossale ma non del tutto la conclusione del romanziere –
scapolo – De Roberto, “La morte dell’amore”: “Se amare qualcuno importa quasi
sempre più che odiarlo, giacché chi odia può anche astenersi dal far male, mentre
chi ama infligge sempre dolori e tormenti, la migliore, la vera prova d’amore
sarà appunto questa: rinunziare all’amore”.
Emigrazione – C’erano gli anglo-indiani (anche pachistani),
e i francesi d’oltremare: una schiera già folta d scrittori che aveva
abbandonato il paese di origine e si era integrata a Londra e a Parigi. Senza
transizione – la prima Arundhati Ry, quella del “Dio delle piccole cose”, e la
successiva è forse il solo esempio di transizione, da un Kerala molto indiano
raccontato in lingua inglese a uno molto inglese. Negli ultimi trent’anni ‘emigrazione
intellettuale si è moltiplicata negli Stati Uniti, di asiatici e africani. E di
africani e Est-europei perfino in Italia, paese che pure non (im)pone una
robusta identità, a differenza della Francia, o dell’Inghilterra o dell’America,
di scrittori e scrittrici che si esprimono in italiano.
Epoche creative – Sono soprattutto
gli inizi secolo, è la nota teoria di Sgarbi – di chi è nato ai primi del secolo.
Quindi si esprimerebbe al meglio negli anni mediani del secolo, i -40-60
sarebbero i più creativi?
“Mephisto”,
del “Sole 24 Ore”, richiama Sgarbi a proposito dei primi dell’Ottocento: 1809
Mendelssohn, 1810 Chopin e Schumann, 1811, Liszt, 1813 Verdi e Wagner. Limitandosi
alla musica. E conclude con l’“Ecclesiaste”: “Tempus stultitia” – come dire la
stoltezza dei tempi (ma è uno dei passi più controversi, secondo monsignor De
Luca). E soprattutto, rincara, del 1685, anno che vede la nascita,
solo per la musica, di J. S. Bach, di Haendel e di Domenico Scarlatti.
Fine Secolo – Quella del Novecento (“Fine Secolo” si applica
solitamente al passaggio trionfale fra Otto e Novecento, all’insegna del
glorioso balletto “Excelsior”) Cyril Connolly, lo scrittore inglese editore e
redattore di “Horizon”, la rivista di lettere e cultura che caratterizzò il
dopoguerra, ha anticipato nel n.78 della rivista, giugno 1946. Una sintesi in dieci punti: abolizione della pena di
morte, della censura, delle leggi antigay, antidivorzio, antiaborto, cure,
pensioni, casa, gas ed elettricità per tutti, controllo dei prezzi alimentari e
dell’abbigliamento, controllo dei diritti di proprietà, niente carceri, solo
riabilitazione, niente discriminazioni razziali o religiose, recupero dei beni
artistici e dell’ambiente.
Questo testo non è stato mai tradotto. Eccetto
una sintesi, pubblicata dall’“Avvenire”, il giornale dei vescovi, cinquant’anni
fa, nel 1969.
Genio - Nasce nel Cinquecento come
parola, nel Settecento come concetto, di personalità eccezionale. A opera
soprattutto di Diderot. Dal latino ingenium,
o anche da genius, la divinità
tutelare. Dalla crasi tra i due concetti originari, inizialmente adattati come
“carattere di una persona, “modo di essere”, Diderot ha estratto quello di
mente superiore, artista o filosofo di qualità eccezionale, per creatività e
entusiasmo, produttività. Qualcosa non di indotto o studiato, ma di ispirato, e
prossimo alla follia.
Icone – Personaggi letterari iconici, ne ha
pochi l’Italia, forse solo Pinocchio, col Gattopardo – Montalbano resisterà? L’Inghilterra
invece abbonda: Alice, Gulliver, Robinson, Jekyll e Hyde, Scrooge, (altro
Dickens), i tanti Shakespeare (Amleto, Otello, Jago, Romeo e Giulietta…),
Sherlock Holmes. La Francia solo Bovary. La Germania Werther, Münchhausen, Simplicissimus.
La Russia ne ha molti fuori misura ma confusi, in Dostoevskij (Raskol’nikov,
Dmitrij, Myskin, i Karamazov, gli Stavroghin), Gogol (Chlestakov, Čičikov, Pljushkin
- più conosciuti per il titolo o funzione, revisore generale, anime morte,
etc.), Tolstòj (Bezuchov, Bolkonskij, Vronsky: o Anna Karénina, Chadži-Murat,
Ivan Il’ič), più Oblomov e Živago.
Rousseau – Partigiano indizionale
dell’uguaglianza per un desiderio inconscio di superiorità, secondo Diderot.
Che nella “Promenade Vernet” racconta: “Jean-Jacques Rousseau, che mi vinceva
sempre agli scacchi, mi rifiutava un vantaggio che avrebbe reso la partita più equilibrata…
«Imparate a perdere», mi diceva. No, gli rispondevo. Ma io mi difenderei meglio
e voi ne avreste più piacere. «Può darsi», replicava, «ma lasciamo stare»”. Un
aneddoto preceduto dal commento: “L’uomo ambisce alla superiorità anche nelle
piccole cose”.
Rousseau e Diderot erano stati
molto amici. Poi avevano litigato. Nel 1749, poco dopo avere assunto la direzione
dell’“Encyclopédie”, Diderot invitò Rousseau a collaborare per la musica.
Rousseau scriverà molto su questo tema. Scriverà anche la voce “Economia
politica”, che nel 1755 pubblicherà a nome proprio, come “Discorso sull’economia
politica”, anticipando alcuni concetti del “Contratto sociale”, in particolare
quello di “volontà generale”.
Fu mentre faceva visita a Diderot in carcere, nel 1749, per
la “Lettera sui ciechi”, per empietà, che Rousseau ricorderà di avere letto sul
settimanale “Mercure de France” il bando del concorso dell’Accademia di Digione,
che gli provocò una sorta di tempesta emotiva, e l’illuminazione che avrebbe
messo a punto nel “Discorso sulla scienza e le arti” che l’anno dopo vincerà il
concorso. Ma presto ebbero cominciarono a litigare. Nel 1752, dopo la
rappresentazione a corte, a Fontainebleau, alla presenza di Luigi XV, di “Le
devin du village”, con successo, Rousseau evitò il giorno successivo di
presentarsi all’udienza dal re, che lo aveva espressamente invitato. Forse per
evitare l’offerta di una pensione regale, che non avrebbe potuto rifiutare dato
che viveva nella quasi indigenza, ma che temeva. Diderot criticò pubblicamente
con una certa asprezza questa scelta.
Nel 1757, proprio mentre Diderot si apprestava ad abbandonare
l’“Encyclopédie”, i rapporti si guastarono definitivamente. Fra attriti di ogni
tipo, con Melchiorre Grimm e con lo stesso Diderot per la “Correspondance
littéraire”. E , più radicali, con D ‘Alembert. Rousseaa, tornato cittadino a
pieno titolo di Ginevra, che lo aveva molto onorato, al punto da dichiararsi
calvinista, si eresse non richiesto a difensore della città dalle critiche. In
particolare contro D’Alembert, che nel settimo volume della “Encyclopédie”
pubblico quell’anno un articolo su Ginevra. Rimarcando ovviamente che il teatro
e la musica vi erano proibite. Rousseau reagì un anno dopo con una “Lettera a D’Alembert
sugli spettacoli”, pubblica, in cui diceva il teatro immorale, in quanto
manipola l’opinione invece di indirizzarla alla virtù. La rottura fu
definitiva, non solo con D’Alembert, e con
Diderot, ma con tutto l’ambiente illuminista.
Voltaire disse Rousseau pubblicamente “il Giuda della
confraternita”. Rousseau gli rispose con una lettera che poi includerà nelle “Confessioni”
- “Avete rovinato Ginevra come prezzo dell’asilo che vi avete ricevuto” e “Vi
odio… ma da uomo che avrebbe voluto amarvi se voi l’aveste voluto”, e comunque “compenetrato”
di “ammirazione, che non si può rifiutare, per il vostro bel genio e amore per
i vostri scritti”. Voltaire dirà allora a un amico: “Rousseau è divenuto pazzo”.
E poco dopo, nel 1764, pubblicherà contro di lui un libello anonimo, in cui
rivelò che aveva affidato i cinque figli ai brefotrofi. .
Tribù – Vargas Llosa intitola alla
tribù, all’appartenenza nel caso alla famiglia liberale, il suo ultimo libro.
Dopo aver ripudiato la cittadinanza peruviana per quella spagnola. Ed essere
passato dal castrismo a Margaret Thatcher.
Toni Morrison si legge distesi, perché
non (si) ghettizza. Come già James Baldwin, benché vivesse in anni in cui
Martin Luther King e Malcom X venivano semplicemente uccisi. Al contrario del
primo Spike Lee al cinema, settario, cupo: nero buono\bianco brutto. Non al
modo dell’“Orfeo Nero” di Sartre, del contrasto dialettico, o del razzismo antirazzista,
ma del ghetto trionfante, con inevitabile sensazione di claustrofobia. La
stessa che dà Helena Janeczek, “La ragazza con la Leica”, che racconta molti
soggetti di varia personalità in molte città, dispersi a causa di Hitler, della
guerra e di altre circostanze, ma tutti etnici (ebrei), come in una bolla –
solo un goi, in mezza pagina su
trecento, Paul Nizan, che era bello e intelligente, argomentativo, ridotto a
piccolo burocrate scimunito del partito Comunista (anche, in una riga, certe
suore che hanno salvato una mamma con la sua neonata, e sono cattive).
C’è sottotraccia - è quello che
infastidisce? - perfino nei romanzi di Henry James, il cosmopolita per eccellenza,
nei suoi personaggi da tribù americana in una temperie europea – o nel viaggio
di Mark Twain alla scoperta del Mediterraneo e dell’Europa, “Gli innocenti all’estero”.
L’opposto, e uno dei motivi maggiori della
sua attrattiva, persistente malgrado i tanti detrattori, è nei romanzi di Hemingway,
che sempre si immerge nelle realtà allogene che lo attraggono, l’Italia, la Spagna,
Parigi, Cuba, l’Africa, l’America rurale.
Vecchiaia – “Una nazione è vecchia,
quando ha gusto”, Diderot, “Promenade Vernet”. Il gusto – il senso del sublime
- è delle “nazioni vecchie”.
lettarutore@antiit.eu
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