È una novità, e non lo è. È vero
che ci sono periodi in cui la democrazia dichiarata recede di fatto, per
illiberalismi, anche censure, e dazi, contingenti, sanzioni, litigi interalleati.
Il populismo non è però mai assente, in democrazia come in altri regimi
politici, in tempi recenziori come in quelli remote: se la misura non era da
molto tempo così estesa, il fenomeno è preoccupante già da tempo. Si potrebbe
dire che il populismo va di pari passo col liberalismo-liberismo, ne è il cattivo
pensiero o l’incubo. Cioè con la democrazia. Ma è anche vero che ci sono periodi
in cui recede e altri in cui effettivamente si fa valere come oggi. La
democrazia respira costruendosi, e decostruendosi, anche annientandosi.
Eklund, accademico americano della
Brown University, già nel 2007 – ma prima del crac bancario – ne rilevava la minaccia
in questo “Democratic Authority”. La rilevava indirettamente, in quanto
analizzava le risposte. E tra esse soprattutto quella privilegiata in ambito
accademico e intellettuale la domanda di un governo dei belli-e-buoni della
Repubblica. Dei saggi, di chi se ne intende. Privilegiata non nel senso di
minacciosa, ma insidiosa sì: perché allontana dalla democrazia proprio “i migliori”, gli (auto)eletti, i belli-e-buoni
– li allontana dalla riflessione non pregiudicata, e dalla partecipazione. Dall’astensione,
che è da allora la vera novità della politica, fenomeno di massa.
La democrazia non si decide
(giustifica) se fa bene o fa male, ma se le sue intenzioni, e le istituzioni-costituzioni
a essa sottese, si indirizzano a promuovere “giuste decisioni”, così come avviene
per le giurie nei tribunali. Questo l’argomento di Eklund. La democrazia, usava
dire, è procedurale – come il diritto. La decisione può anche essere sbagliata,
ciò che importa è il “valore epistemico” della procedura, il modo o il grado
come essa è intesa a una decisione buona.
In democrazia affiora sempre
l’epistocrazia, argomenta Eklund: il governo dei buoni-e-belli della Repubblica,
di coloro che sanno, anche solo intellettuali. Il suo “proceduralismo epistemico”
evita l’epistocrazia. Dell’opinione pubblica – oggi si direbbe dei social.
La democrazia si dice che abbia problemi: deriva al populismo, eccetera. In tempo si crisi - di ideologia
di crisi, addirittura di volontà - si tende a buttare il bambino con l’acqua sporca.
Amartya Sen ha rilevato, semplice, che le democrazie non producono carestie. Altri
hanno spiegato che in genere non si fanno guerra, non tra di loro. E rispettano
i diritti umani. E comunque non massacrano le loro stesse popolazioni. La
democrazia, insomma, non ha bisogno di difese. Ma funziona volentieri male.
Curiosamente la domanda di
aristocrazia democratica si espande negli Stati Uniti proprio mentre si comincia
a contestare da più parti, soprattutto liberali, la meritocrazia. Si vuole più
“merito”, o capacità di giudizio, in politica, mentre la si contesta sul piano
economico e sociale. Si espandeva questa domanda da prima dei social e di Trump: come se l’America fosse stanca di
se stessa, che pure era – e resta - l’incarnazione della dottrina dello Stato
classica (liberale), della forza e della convinzione insieme.
Eklund, filosofo politico, riprende,
senza citarla, uno degli argomenti di Hannah Arendt. Che in più saggi si pone
lo stesso problema, dell’azionamento e produttività della democrazia. Rifacendosi
in più passi alla “Autorità” di Alessandro Passerin d’Entrèves, del potere che
è convinzione. Auctoritas
che, Alessandro Passerin d’Entrèves insegnava, è chiesastica, ed è la base
della libertà - che non è essere Dio: l’uomo è limitato, tanto più un manovale
con poco mestiere, l’uomo non è libero alla nascita da questo punto di vista,
la libertà è solo condivisa. Democratica.
David Estlund, Democratic Authority, Princeton University Press, pp. 312 $ 35
Nessun commento:
Posta un commento