In soli tre decenni, ponendo come
termine post quem la caduta del sovietismo,
si è passati dal sogno realizzato della libertà al dominio più incontrollato,
quindi più assoluto. In cinquant’anni, partendo dal Sessantotto, che era un’utopia,
dall’anarchismo creativo all’assolutismo. L’utopia negativa – antiutopia,
distopia – che Orwell immaginava nel 1984 si è realizzata poco dopo, più forte
ancora del suo “1984”, e senza costrizioni: è la realizzazione in corpore del paradigma della servitù
volontaria. Siamo controllati e contenti, wired, branchés, collegati, in ogni
movimento, in ogni gesto, si può dire, e anche nei desideri. Negli averi, negli
atti, e fin nei pensieri, se poco poco li esplicitiamo. E quest’epoca di totale
dominio si celebra: non cupa ma brillante, non dominatrice ma liberatrice, e
pronuba di eccelse novità. Forse addirittura l’intelligenza artificiale, che ci
libererebbe da noi stessi.
È palese quanto tutto ciò sia perverso.
E anche stupido, se asservisce l’uomo nella storia e nel mondo, nell’universo. Tuttavia si vuole, e riesce a proporsi credibile
e bello, essere preso per tale. Prodromo sicuramente di catastrofi, ma ha degli
anticorpi: ha maturato almeno la furbizia che le catastrofi non aiutano,
nessuno. Né una catastrofe è augurabile per
variare il corso degli eventi.
La pace perpetua s’invocherà quale suprema
asservitrice. Volontaria e anche entusiasta. Alla stupidità, ma non c’è alternativa. Alla inettitudine,
dei molti, dei più, della totalità.
Si sarebbe detto un paradosso, ma non
ci sono più paradossi: il pensiero si vuole lineare, piatto.
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