Quindici anni più tardi, già
celebre per la spettacolare “Symphonie phantastique” del 1830, briga e riceve l’incarico
per la “Grande messe des morts”, in attesa che muoia qualcuno d’importante. Con
la clausola contrattuale che gli siano assicurati cinquecento esecutori. Ne avrà
quattrocentocinquanta, per il funerale il 5 dicembre 1837 agli Invalides di un
generale morto nell’occupazione di Costantina in Algeria: la “Grande Messe” viene
a coronamento di una kermesse nazionalistica. De Vigny, che aveva assistito alla
generale il giorno prima, la ricorda così: “Tutte le bandiere prese al nemico erano
sistemate in alto nella chiesa e pendevano in giù, sforacchiate dalle
pallottole. La musica era bella, bizzarra, selvaggia, convulsiva e dolorosa”.
Colossale comunque. È la
sensazione che se ne ricava, non ricordandosi nota o movimento, o un tono,
generale o particolare, ai dieci movimenti-momenti della messa. Niente tensione
drammatica, e nemmeno afflato religioso - Berlioz si professava empio: “Sono un
empio, pieno di rispetto per i pii”.
Per rispetto alla Francia, potenza allora dominante benché sconfitta a Waterloo, Berlioz confluì nella Grande Musica francese, e la “Grande Messe” fu avvicinata alla “Divina Commedia” e al “Giudizio Universale”, ma Berlioz non conosceva Dante e Michelangelo non gli piaceva. Tra la Sinfonia e la Grande Messe era stato pensionante distratto a Roma, benché ospite a Villa Medici, e in città incontrasse il più giovane e promettente Mendelssohn-Bartholdy.
Nelle memorie dirà di Cherubini che aveva tentato di sabotare la Grande Messe, pretendendo che si eseguisse per la cerimoniacaglibInvalides uno dei suoi due Requiem. Ma Berlioz era all’Accademia a Roma per non avere avuto un posto a Parigi, rifiutato da Cherubini. “Non sapete suonare il pianoforte”, aveva risposto Luigi Cherubini, direttore del Conservatorio, al compositore che si candidava a insegnare l’armonia, “non si può insegnare l’armonia se non si padroneggia il piano”. Orchestrava schitarrando, e scriverà un “Trattato di strumentazione” con l’elogio del trombone, dei timpani e dei mazzuoli.
Per rispetto alla Francia, potenza allora dominante benché sconfitta a Waterloo, Berlioz confluì nella Grande Musica francese, e la “Grande Messe” fu avvicinata alla “Divina Commedia” e al “Giudizio Universale”, ma Berlioz non conosceva Dante e Michelangelo non gli piaceva. Tra la Sinfonia e la Grande Messe era stato pensionante distratto a Roma, benché ospite a Villa Medici, e in città incontrasse il più giovane e promettente Mendelssohn-Bartholdy.
Nelle memorie dirà di Cherubini che aveva tentato di sabotare la Grande Messe, pretendendo che si eseguisse per la cerimoniacaglibInvalides uno dei suoi due Requiem. Ma Berlioz era all’Accademia a Roma per non avere avuto un posto a Parigi, rifiutato da Cherubini. “Non sapete suonare il pianoforte”, aveva risposto Luigi Cherubini, direttore del Conservatorio, al compositore che si candidava a insegnare l’armonia, “non si può insegnare l’armonia se non si padroneggia il piano”. Orchestrava schitarrando, e scriverà un “Trattato di strumentazione” con l’elogio del trombone, dei timpani e dei mazzuoli.
Grande sforzo di Pappano, che
ha voluto variare il repertorio di Santa Cecilia con questa apertura grandiosa
- specie se vista dall’alto: concertare e dirigere due cori, il Santa Cecilia e
il San Carlo di Napoli, l’orchestra di Santa Cecilia, rinforzata da venti ottoni della Polizia, e da venti timpani, e il tenore Javier Camarena (il tenore, che canta il Sanctus, è sostituibile, nelle note di regia di Berlioz, con dieci tenori). Un impegno eccezionale, novanta minuti senza intervallo, per i cori.
Hector Berlioz, Grande messe des morts, Antonio Pappano, orchestra e coro dell’Accademia Santa
Cecilia, Roma
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