venerdì 11 ottobre 2019

Berlioz, o l’effetto Boullée in musica

La celebrazione quest’anno di Berlioz Pappano ha voluto aprire con una delle sue opere grandiloquenti, un lungo Requiem detto Grande Messe, anche se giocato sui versetti del “Dies irae, dies illa”. Grandioso è l’aggettivo preferito di Berlioz - che per la Grande Messe usa nelle memorie gli aggettivi gigantesca e colossale. E un Requiem era stata la prima esecuzione musicale dal vivo che lo aveva colpito ventenne nel 1824, studente di medicina: quello di Cherubini per i funerali del duca di Berry nel 1820, ripresi per Luigi XVIII, nella chiesa di Saint-Denis. Una Messa solenne di cui lo aveva colpito “lo scarso effetto”, scriverà: gli addobbi avevano soffocato i suoni, e “il capoalvoro di Cherubini, eseguito da duecentocinquanta eccellenti musicisti, non produsse che uno scarso effetto”. L’effetto Berlioz sarà la grandiosità, la sonorità. Una sorta di trasposizione in note del grandioso di Boullée, l’architetto, un secolo prima.
Quindici anni più tardi, già celebre per la spettacolare “Symphonie phantastique” del 1830, briga e riceve l’incarico per la Grande messe des morts, in attesa che muoia qualcuno d’importante. Con la clausola contrattuale che gli siano assicurati cinquecento esecutori. Ne avrà quattrocentocinquanta, per il funerale il 5 dicembre 1837 agli Invalides di un generale morto nell’occupazione di Costantina in Algeria: la Grande Messe viene a coronamento di una kermesse nazionalistica. De Vigny, che aveva assistito alla generale il giorno prima, la ricorda così: “Tutte le bandiere prese al nemico erano sistemate in alto nella chiesa e pendevano in giù, sforacchiate dalle pallottole. La musica era bella, bizzarra, selvaggia, convulsiva e dolorosa”.
Colossale comunque. È la sensazione che se ne ricava, non ricordandosi nota o movimento, o un tono, generale o particolare, ai dieci movimenti-momenti della messa. Niente tensione drammatica, e nemmeno afflato religioso - Berlioz si professava empio: “Sono un empio, pieno di rispetto per i pii”.
Per rispetto alla Francia, potenza allora dominante benché sconfitta a Waterloo, Berlioz confluì nella Grande Musica francese, e la “Grande Messe”  fu avvicinata alla “Divina Commedia” e al “Giudizio Universale”, ma Berlioz non conosceva Dante e Michelangelo non gli piaceva. Tra la Sinfonia e la Grande Messe era stato pensionante distratto a Roma, benché ospite a Villa Medici, e in città incontrasse il più giovane e promettente Mendelssohn-Bartholdy.
Nelle memorie dirà di Cherubini che aveva tentato di sabotare la Grande Messe, pretendendo che si eseguisse per la cerimoniacaglibInvalides uno dei suoi due Requiem. Ma Berlioz era all’Accademia a Roma per non avere avuto un posto a Parigi, rifiutato da Cherubini. “Non sapete suonare il pianoforte”, aveva risposto Luigi Cherubini, direttore del Conservatorio, al compositore che si candidava a insegnare l’armonia, “non si può insegnare l’armonia se non si padroneggia il piano”. Orchestrava schitarrando, e scriverà un “Trattato di strumentazione” con l’elogio del trombone, dei timpani e dei mazzuoli.
Grande sforzo di Pappano, che ha voluto variare il repertorio di Santa Cecilia con questa apertura grandiosa - specie se vista dall’alto: concertare e dirigere due cori, il Santa Cecilia e il San Carlo di Napoli, l’orchestra di Santa Cecilia, rinforzata da venti ottoni della Polizia, e da venti timpani, e il tenore Javier Camarena (il tenore, che canta il Sanctus, è sostituibile, nelle note di regia di Berlioz, con dieci tenori). Un impegno eccezionale, novanta minuti senza intervallo, per i cori.   
Hector Berlioz, Grande messe des morts, Antonio Pappano, orchestra e coro dell’Accademia Santa Cecilia, Roma

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