Il ricordo brucia,
evidentemente. Non nella memoria di chi legge, ma certamente in quella di chi
agì. Sempre viva, nelle istituzioni se non nelle persone. Perché di questo alla
fine si tratta: la strage è stata, non c’è scampo, di Stato. Non l’unica, e
forse nemmeno la prima. I tanti processi ne hanno accertato solo porzioni. La
storia peraltro non si è nemmeno tentata, e nessuno sembra intenzionato a
farla: succede quando le fonti non sono percorribili. E le fonti non lo sono
quando il segreto è di Stato. Non c’è segreto che tenga in Italia? C’è, ce ne
sono tanti, mai precisamente svelati, a partire dai briganti e i pugnalatori,
cioè da quando l’Italia esiste.
La ricostruzione di Deaglio si basa sulle cose note, raccontandole con un filo persuasivo. Che parte dal depistaggio immediato, allo scoppio della bomba, e attraversa i tortuosi processi che vi furono imbastiti. Una frenata catastrofica alle ambizioni e all’immaginazione dell’Italia, che si voleva invece avventurosa, al culmine dell’ascesa, economica e politica, seguita alla Ricostruzione dopo la guerra. Per approdare, tra mille “deviazioni” (resistenze), alle colpe di Freda e di Ventura, e di Giannettini, cioè del Sifar. Con la coda inevitabile della “vendetta” dei benpensanti, specie della sinistra, più ancora del Pci, e delle istituzioni incontrollabili. Manovrando, attraverso i tanti volenterosi esecutori tra i Carabinieri e i giudici, contro Sofri. Col falso processo che si sa, giudicato ben sette volte, e che si fa finta non ci sia stato. Basta la pagina 253 per capire di che filo l’esito è stato tessuto: un colpo di qua e uno di là. Beffardo, come è delle cose dei servizi segreti, che si dicono “deviati”, ma giusto per salvarsi la coscienza.
La ricostruzione di Deaglio si basa sulle cose note, raccontandole con un filo persuasivo. Che parte dal depistaggio immediato, allo scoppio della bomba, e attraversa i tortuosi processi che vi furono imbastiti. Una frenata catastrofica alle ambizioni e all’immaginazione dell’Italia, che si voleva invece avventurosa, al culmine dell’ascesa, economica e politica, seguita alla Ricostruzione dopo la guerra. Per approdare, tra mille “deviazioni” (resistenze), alle colpe di Freda e di Ventura, e di Giannettini, cioè del Sifar. Con la coda inevitabile della “vendetta” dei benpensanti, specie della sinistra, più ancora del Pci, e delle istituzioni incontrollabili. Manovrando, attraverso i tanti volenterosi esecutori tra i Carabinieri e i giudici, contro Sofri. Col falso processo che si sa, giudicato ben sette volte, e che si fa finta non ci sia stato. Basta la pagina 253 per capire di che filo l’esito è stato tessuto: un colpo di qua e uno di là. Beffardo, come è delle cose dei servizi segreti, che si dicono “deviati”, ma giusto per salvarsi la coscienza.
Alla ricostruzione questo un
po’ manca: la vendetta dei benpensanti, soprattutto della sinistra,
soprattutto del Pci, contro i “gruppuscoli”, contro i leader di opinione. Si
colpì Sofri, tardivamente, a quasi vent’anni dal delitto Calabresi, per
fastidio. Come capro espiatorio in teoria della deriva terroristica che non si
sapeva contrastare (si estinse di suo). Di fatto per il fastidio di una
opinione liberata, ideologica e anche politica, che non si tollerava e
inconsciamente si temeva.
Le prove storiche
Alla vicenda in sé manca l’essenziale:
manca la prova del complotto. Ma solo se si vuole ripercorrere le cronache, sia
pure di controinformazione, del tempo. Mentre più di un fatto consente già di
mettere la vicenda in prospettiva. Ne elenchiamo cinque.
La bomba di piazza Fontana,
alle 16.37, è una di una serie. In contemporanea, a Milano e a Roma. A Milano
una seconda bomba, alla Banca Commerciale in piazza della Scala, non esplose.
Fatta inspiegabilmente brillare agli artificieri dalla Procura e dalla Questura
di Milano concordi, è probabile fosse stata temporizzata per lo stesso orario,
poco dopo la chiusura pomeridiana.
A Roma alle 16.55 una bomba
esplose nel passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro, tra l’entrata
in via Veneto e quella in via San Basilio, con 14 feriti. Alle 17.22 una seconda
esplosione avvenne davanti al Vittoriano, l’altare della Patria, alla base del pennone. Alle 17,50 una
terza bomba esplose di fianco al Vittoriano verso il Campidoglio, al museo del
Risorgimento, con 4 feriti.
C’è stato un disegno negli attentati.
E una organizzazione. Anche a presumere che le tre bombe di Roma siano state collocate
dalla stessa persona.
È possibile che gli attentati
si volessero dimostrativi. Al 16.37 la banca dell’Agricoltura doveva essere
chiusa. Ma non è detto: la bomba al sottopassaggio della Bnl a Roma poteva
comunque fare vittime.
La Questura e la Procura di
Milano indirizzarono le indagini immediatamente sugli anarchici. In questo
senso fu informato il governo.
Il pomeriggio del 12 dicembre
1969 era in corso al Viminale una riunione di routine del Comitato sull’ordine pubblico
e la sicurezza, un organismo consultivo interpartitico. Poco prima delle 17 il
ministro Restivo si assentò, richiesto dal suo segretario, che era già
uscito sollecitato da un usciere, scusandosi per notizie urgenti in arrivo.
Pochi minuti dopo, mentre la notizia di piazza Fontana prendeva a circolare, il
segretario del ministro rientrò e disse: “Sono stati gli anarchici”.
La notizia di piazza Fontana
circolò nella riunione dopo quella della Bnl a Roma, e dei feriti.
Il ministro era Franco
Restivo, dc, siciliano. Il segretario era Peppino Insalaco, che sarà sindaco di
Palermo per breve tempo, dal 17 aprile al 13 luglio 1984, quando il consiglio comunale
che lo aveva eletto lo dimissionò, su decisione di Ciancimino, e il 12 gennaio 1988
sarà assassinato per strada, dalla mafia.
Anche l’assassinio del commissario
Calabresi si può analizzare.
Calabresi era stato prima e
fu dopo piazza Fontana il principale assertore di un disegno sovversivo anarchico
all’ufficio politico della questura di Milano.
Il suo assassinio non fu
indagato. Mai un ufficiale di Polizia era stato assassinato senza una reazione
adeguata del corpo. Peggio: l’indagine ci fu, ma indirizzata verso sicuri non colpevoli.
Quando l’opinione politica
benpensante giudiziaria e di sinistra convergette verso la soluzione Lotta
Continua, la deposizione di Marino fu raccolta irritualmente dal colonnello dei
Carabinieri Buonavenura. Su istruzioni della Procura di Milano. I protocolli
che regolano le testimonianze di chi accusa autoaccusandosi, come è stabilito
dai protocolli originari della materia, americani, vogliono la verbalizzazione
alla presenza di più soggetti, inquirenti o giudicanti, e la testimonianza è
valida se resa in un’unica seduta, non a tappe o a rate. L’autodenuncia di Marino
è stata invece “curata” dal colonnello per due settimane, e
rettificata in più punti dalla Procura di Milano.
Marino, testimone d’accusa
contro Sofri, è un pentito speciale anche in questo: rimesso in libertà, ha ripreso
la sua vecchia attività di paninaro in piazza, a Bocca di Magra, senza gli accorgimenti d’obbligo
a protezione dei testimoni d’accusa. Non escludendo cioè la sua eliminazione “per
vendetta”, qualora avesse deciso di dare una diversa versione della sua testimonianza - da attribuire cioè per vendetta a un qualche amico di Sofri che si fosse soltanto avvicinato, anche
inavvertitamente, a Bocca di Magra.
Nel 1992 il colonnello dei
Carabinieri Elio Dell’Anna, in servizio a Trapani, scrisse in un rapporto
riservato che il giudice istruttore di Milano Antonio Lombardi, lo stesso che
aveva rinviato a giudizio Sofri per l’omicidio Calabresi, gli consigliava di
indagare Lotta Continua anche per l’omicidio quattro anni prima a Trapani di Mauro Rostagno. La
cosa fu fatta, con l’incriminazione di Chicca, la compagna di Rostagno, ricorda
Deaglio, per la ragione che Chicca, dopo l’assassinio di Mauro, si era
rifugiata da Sofri per protezione…
È caratteristica dei servizi
segreti, in tutte le spy stories, la
beffa. L’irrisione: le spie si divertono. E le provocazioni – uccidetemi p. f.
il testimone che ho fabbricato è una delle più ricorrenti, così diventa
inscalfibile. Ma la vicenda, a un approccio storico, può prescinderne. La
storia può invece servirsi della testimonianza cui Dell’Anna, ultrassessantenne
ormai in quiescenza, fu chiamato nel vero processo Rostagno venti anni dopo,
nel 2012 – ventiquattro dopo l’assassinio, il 26 settembre 1988. Contro i veri responsabili,
le mafie che Rostagno denunciava dalla sua emittente.
Dell’Anna disse in tribunale il
12 giugno 2012 che non aveva mai indagato la mafia di Trapani: nessun giudice
glielo aveva chiesto, e i Carabinieri non ne avevano ragione. Poi si diede a negare
di avere avuto la confidenza di Lombardi o di averne scritto, malgrado la cosa risultasse
verbalizzata, trincerandosi dietro una serie interminabile di “non ricordo”.
Il contesto era la reazione
contro il Sessantotto, il movimento di contestazione giovanile, analogo ai
tanti oggi in atto in Libano, in Cile e in Iraq, nella piega che aveva preso
nell’Autunno Caldo del 1969, di rivendicazioni sindacali apparentemente inarrestabili.
Nella storia che se ne è
fatta finora, quella labile e affrettata delle cronache giornalistiche, la
vicenda ha tuttavia un nome significativo: piazza Fontana è l’innesco della
“strategia della tensione”. La strategia è sintesi giornalistica fornita all’“Observer”, il settimanale
britannico, da uno special correspondent,
dizione che usava e usa nella stampa britannica per fonti “bene informate”: collaboratori
conosciuti e dall’identità certa, ma per
essere, più che giornalisti, persone addentro ai segreti, spie o per qualche ragione vicine alle spie, con accesso a
fonti speciali e non testimoniabili. È suggestiva, oltre che veritiera, e in essa
sembra esaurirsi tutto il bisogno di sapere. Mentre è possible e sarebbe
necessario saperne di più, la verità della cosa.
Enrico Deaglio, La bomba, Feltrinelli, pp. 295, ill.,
ril. € 18
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