A Roma “oggi, senza la
macchina è difficile vivere, ed io vivo difficilmente”. È il tenore di queste
prose “disperse” fra i giornali, qualcuna ancora nei cassetti: recensioni di
libri per lo più, e articoli, appunti. Lepide a volte, tutte sapide. Senza
macchina sarà un pretesto per farsi imbarcare dagli amici – Parise ci ha
scritto sopra pagine lepidissime, sapidissime – gratis, sempre con i noti
scongiuri per la velocità. Ma, certo, la macchina è un disturbo ai nervi, specie
le serrande dei “garages” e “boxes”, nonché dei regolari, che partono
invariabilmente alle cinque di mattina, Gadda dice alle tre, sbattendo lo
sportello e dando rumorosamente gas – all’epoca non c’era l’accensione
elettronica.
Un Gadda com’era, colto e
goliardico. Di cultura robusta e approfondito uso di mondo, o esperienza, ma –
per questo – leggero e giovanile, non il cumenda
sulfureo, un po’ bolso, dei tardi agiografi. Un quarantenne che inizia una
nuova vita, lontano dalla carriera di ingegnere e dalle cure familiari. Nel
bisogno: lo pensa, lo reitera (collaborerà per questo nel dopoguerra,
cinquantenne, anche col “Popolo”, il giornale della Dc, Leone Piccioni non
potendogli proporre altro di “alimentare”). Con un’esperienza di mondi, di mondo,
unitamente a quella della guerra al fronte e della prigionia, incomparabile con
la domesticità dei nuovi compagni di merende ai caffè letterari. Per non dire
della formazione, filosofica e letteraria oltre che tecnica e scientifica, nei
suoi piani di gioventù, anch’essa al di sopra della media, molto.
L’unico che ha sensibilità
per il quotidiano, il vissuto: il quartiere, il palazzo, il condominio, le
pareti in foratino. S’impone anche, in parallelo sempre con Pasolini, ma qui da
“secondo”, la conoscenza delle periferie romane, fin nelle borgate, in una
lunghissima e attenta considerazione. Di affettuosa, benché lagnosa, attenzione,
senza pari, per Roma: per i quartieri, la toponomastica, i modi di dire, i
caratteristi. E di considerazione dubitosa, tra fervore nostalgico e ironie
insopprimibili, per la sua Milano, dove non fu felice – e decide, in un paio di
occasioni in cui considera l’opzione, soprattutto l’ultima, con l’età e le malattie,
di non tornare. Non esclusa la sottile, non più scherzosa, paranoia che sempre
lo accompagna dai quaranta, da quando a Firenze e altrove si fa personaggio
pubblico.
I molteplici interessi di
Gadda sono documentati: letterari, linguistici, e anche civili e politici. Una personalità
speciale, tutto il contrario del carattere misantropico e misoneistico che gli
è stato cucito addosso. E forte a molti tasti, resocontista professionale, documentato,
ferrato, impegnato. Che tutti sa rendere interessanti. Un Gadda anche serioso,
inventivo anche in questa veste, ingegnoso, propositivo. Sulla difesa del
latino – lingua solida e durevole, esatta e quindi scientifica. Sulla ricerca
dell’italiano – molti i contributi alla romana questione della lingua tra 1950 e 1960. Con Sinisgalli pedagogico
e gnoseologico.
E uno perfino spensierato,
negli anni 1960-1963, alla vetta degli onori e della sicurezza, col piccolo Nobel
“Formentor”. Nella scrittura e nella corrispondenza, che la curatrice documenta
in nota. Con “Il cetriolo del Crivelli” e altre prose divertite. A teatro si
diverte senza vergogna, in tempi pure bui, aprile 1945. Alla “Cena delle beffe”
inscenata dal duo Amedeo Nazzari-Rossano Brazzi alla Pergola di Firenze. Ai
Satiri di Roma si avvicina con una buffa lettura della tonomstica, dai
Giubbonari alla Pollarola e agli stessi Satiri – con Pompeo nel mezzo. O alle
messinscene di “Luchino” (Visconti) – anche se a spese di Čechov: Gadda è difensore
dell’ammodernamento scenico, dell’attualizzazione dei drammi e commedie. Notevole,
oltreché al solito acuto, il riesame della “Mandragola”.
Un libro ponderoso. Testimone
che le dure fatiche lamentate da Gadda non erano nevrosi. Dovette scrivere
articoli, che lo angustiavano (gli prendevano una settimana e lo stremavano), per
tutta la vita attiva in letteratura, dal 1927. Ma ben cosciente di sé, del
capitale accumulato: “Il convoluto Eraclito di via San Simpliciano”, il
domicilio milanese, si fa dire da Pasquali. E della propria debolezza:
recensendo nel 1946 i “Pensieri” di Devoto s’illumina al § 6 del cap.
“Antefatto”, “Capri espiatori”, “di cui
particolarmente ringrazio l’Autore”: “Lumeggia la psicosi dell’addebitamento di
colpa, il meccanismo di formazione dei miti (erroneamente) punitivi in seno
alla collettività stanca, delirante, malata”.
Ne dà conto, anche profuso, nella recensione di Berto, “Il male oscuro” –
titolo e esergo Berto aveva mutuato dalla “Cognizione del dolore”: elaborata e
concettosa, benché destinata alla lettura alla radio, sulle tante forme del mal
di vivere. Senza privarsi di notare che spesso fa emergere il ridicolo.
L’apologia manzoniana che
apre la raccolta un po’ allontana: cerebrale, impositiva. Ma presto si
riprende, già con le semplici recensioni gionalistiche, di Morand (“1900”),
Arland (“Essais critiques”), il cugino Piero, Pierre Abaham, uno statistico di
Balzac, pretesti al gaddismo puro – “Il modo dei modi è un mistero dei misteri,
non meno che la causa delle cause”. Ironico e anzi beffardo volentieri, per la
forza della logica – della cosa denudata, del dire senza già detto. Un volume
perfino un po’ troppo denso.
Pieno di cose, naturalmente.
Che riverberano sul fenomeno Gadda. C’è già nel 1932 la Brianza triste della
“Cognizione del dolore”, nella recensione al cugino, eletto
antifrastiscamente, cioè ridotto, a
cultore della Brianza (p.62): “Come specialista in fatto di Brianza intendo ed
apprezzo quel pacato e malinconico lirismo gaddiano, che di là dai dolci pioppi
d’Eupili avvolge il grigiore del Resegone”, con “la trombetta degli usseri nei
chiari mattini” della caserma, “fragorosamente contrappuntato dalle campanone
simplicianone”che interrompevano il sonno – “disciogliendosi ne’ loro sproloquî
i bei sogni filosofici di mia primavera, fiorita di calcolo
differenziale”. Con una passione filologica
dichiarata. Su Goethe e il “Faust”: Goethe è uno Shakespeare infelice nel
“Faust”, enfatico, di testa, e Gadda lo mostra leggendo in parallelo
l’“Amleto”. Della lirica e metrica di Catullo, di pregno o coltivatissimo
sedimento filologico: nell’ambientazione politica, del poeta come anticesariano
preveggente, nello studio ritmico, e “per la religiosa catarsi del carme 34
(che inspira il Carmen saeculare di
Orazio)”. Sulle traduzioni in genere, su
quelle del “Faust e su quella di Manacorda. Su simbolo e allegoria. Sul senso
religioso.
Con giudizi anche affilati.
Non umorali, Gadda è professionale anche nelle recensioni: avvedute e spiegate. Contro Foscolo, contro
Carducci – smonta il “Ça ira” verso a verso. Di Quasimodo traduttore di Catullo in versi liberi, operazione che in privato
dice “uno spasso!”, (p. 503), si limita a concludere: “Siamo grati al poeta del
poetico esperimento”. Su Montale ritorna quattro o cinque volte, superelogiativo
(ma Montale era riservato nei suoi confronti, nota Liliana Orlando, che ha
curato la raccolta), come su Bacchelli, incuriosito e forse irretito dal
romanzo storico. Amichevole e lucido. Per “l’Aldo” soprattutto, Palazzeschi.
Per Angioletti, suo nume tutelare in una lunga serie di occasioni, fino
all’impiego provvidenziale, risolutivo, in Rai. Per Luigi Russo. E per
Pasquali: amico e estimatore, l’autorevole filologo classico, che ama e apprezza
la conversazione di Gadda come Gadda la sua, e lo conosce anche bene, se gli
scrive, nel 1933: “Se una volta nella sua vita riuscisse a conseguire serenità
e gioia, a esser meno malcontento almeno di sé”…”.
Saldo cristiano, con Rensi e
il suo “umanesimo cristiano”, secondo dopoguerra. Anche ottimo reporter,
minuzioso, inventivo: la visita di palazzo Braschi, nella lunga epifania
dell’“Aldo” (Palazzeschi), è una sorpresa dietro l’altra. O la visita ai “Quartieri
suburbani”, 1955, per la “Civiltà delle macchine”. Anche serioso: gli è capitato
di fare il relatore a un premio di poesia, Le Grazie, nel 1949, assegnato a
Parronchi – ne approfitta per l’ennesima filippica contro Foscolo, nel quale
incarna il trombonismo ottocentesco, ma non si evita, qua e là, di apprezzarlo,
per esempio come traduttore.
L’ultimo dei Quattro saggi
che Gadda ha scritto su Belli, nel 1963, qui con il titolo “Canto, cantica,
girone”, che tutti li riassume, è un manifesto di poetica. Con le parole di
Vigolo, curatore nel 1953 dell’opera di Belli per i Classici Mondadori: “Il sarcasmo
è in lui il virus antiretorico per eccellenza che agisce in profondità,
rendendo impossibile una presa del falso sull’animo: è una «regola» spirituale che
il Belli si dà ed è l’analogo perfetto, in sede psicologica, dell’altra regola
che si era imposta nel linguaggio, escludendone ogni forma o modo che non
fossero schiettamente di popolo”. Con la postilla, dopo aver riportato Belli a
Porta: “Il dramma dell’espressione è nel Belli, come è nel Manzoni”.
Rivendicandone, giulivo, “la dissonanza insistente – cupo pedale, dice Vigolo –
tra la carcerata voce dell’io e il dorato coagulo del supersistema: aulico,
accademico, instituzionale”. Con la conclusione, con parole proprie, programmatica:
“La verità, la dialessi del Belli, comprende o comporta il mito plebeo della
città e de’ suoi modi e delle sue genti: lo incorpora nel poema: e non
solamente come antitesi… Col Belli, non meno che col Piranesi e col Pinelli, si
finisce per amare la totalità di questo epos”.
Su Manzoni si commuove. L’“Apologia”
è di testa, la critica al Manzoni di Moravia è invece veemente. “Ho letto dieci
volte i P.S. da ragazzo fra i 9 e i 16”, premette scrivendone a Citati per un
consiglio, “e sempre mi hanno incantato, pagina per pagina”. I Millenni Einaudi
si erano affidati a Moravia per presentare la lussuosa edizione del romanzo, con
tavole di Guttuso, e “Alberto” lo aveva fatto infuriare. La stroncatura della
stroncatura di Moravia di rilegge come un capolavoro di filologia. E di storiografia,
trattandosi di mondi e personaggi del Sei-Ottocento e di un romanzo storico: “Noi
amiamo anche il passato, e leggiamo
talora nel passato più veramente che nel futuro. Una storia ci può appassionare
e incitare più che un’utopia”. Con una schematizzazione del romanzo che ne
fa il primo caso di narrazione degli umili, e di denuncia dei poteri - il fine Ingegnere non dice che Moravia ha fatto il compitino sulla traccia di Gramsci nei quaderni del carcere, fa lui il vero trascinano. La chiusa
è al “volemose bbene”, tirata sul pettegolezzo che tutti unisce, ma la tirata è
ben polemica. Salvo beccare qua e là il Manzoni
purista e poeta, il “futuro proprietario della villa di Brusuglio”.
Scritti da definire noti,
perché tutti già pubblicati. Ma in epoche e su veicoli remoti. Riuniti insieme
fanno una sorta di monumento. Non celebrativo, non è il Gadda a cavallo o il
mezzobusto, ma un personaggio vivace, dagli interessi poliedrici, e sempre con
qualche soddisfazione (curiosità) per il lettore: uno scrittore solido, con
tutte le sue ansie e le ubbie. Più Gadda si conosce e più si irrobustisce.
Liliana Orlando, che cura la
raccolta, ne facilita la lettura - e un po’ anche la rianima – con nutrienti
note di contestualizzazione, lavorando sulla corrispondenza, le testimonianze,
gli appunti, per lo più inediti. Una sottile tessitura imbastendo, senza
parere, di fonti, rinvii, riferimenti, retropensieri dell’arguto incontenibile
Ingegnere.
Carlo Emilio Gadda, Divagazioni e garbuglio, Adelphi, pp.
554 € 26
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