mercoledì 16 ottobre 2019

Gadda filologo beffardo

A Roma “oggi, senza la macchina è difficile vivere, ed io vivo difficilmente”. È il tenore di queste prose “disperse” fra i giornali, qualcuna ancora nei cassetti: recensioni di libri per lo più, e articoli, appunti. Lepide a volte, tutte sapide. Senza macchina sarà un pretesto per farsi imbarcare dagli amici – Parise ci ha scritto sopra pagine lepidissime, sapidissime – gratis, sempre con i noti scongiuri per la velocità. Ma, certo, la macchina è un disturbo ai nervi, specie le serrande dei “garages” e “boxes”, nonché dei regolari, che partono invariabilmente alle cinque di mattina, Gadda dice alle tre, sbattendo lo sportello e dando rumorosamente gas – all’epoca non c’era l’accensione elettronica. 
Un Gadda com’era, colto e goliardico. Di cultura robusta e approfondito uso di mondo, o esperienza, ma – per questo – leggero e giovanile, non il cumenda sulfureo, un po’ bolso, dei tardi agiografi. Un quarantenne che inizia una nuova vita, lontano dalla carriera di ingegnere e dalle cure familiari. Nel bisogno: lo pensa, lo reitera (collaborerà per questo nel dopoguerra, cinquantenne, anche col “Popolo”, il giornale della Dc, Leone Piccioni non potendogli proporre altro di “alimentare”). Con un’esperienza di mondi, di mondo, unitamente a quella della guerra al fronte e della prigionia, incomparabile con la domesticità dei nuovi compagni di merende ai caffè letterari. Per non dire della formazione, filosofica e letteraria oltre che tecnica e scientifica, nei suoi piani di gioventù, anch’essa al di sopra della media, molto.
L’unico che ha sensibilità per il quotidiano, il vissuto: il quartiere, il palazzo, il condominio, le pareti in foratino. S’impone anche, in parallelo sempre con Pasolini, ma qui da “secondo”, la conoscenza delle periferie romane, fin nelle borgate, in una lunghissima e attenta considerazione. Di affettuosa, benché lagnosa, attenzione, senza pari, per Roma: per i quartieri, la toponomastica, i modi di dire, i caratteristi. E di considerazione dubitosa, tra fervore nostalgico e ironie insopprimibili, per la sua Milano, dove non fu felice – e decide, in un paio di occasioni in cui considera l’opzione, soprattutto l’ultima, con l’età e le malattie, di non tornare. Non esclusa la sottile, non più scherzosa, paranoia che sempre lo accompagna dai quaranta, da quando a Firenze e altrove si fa personaggio pubblico.
I molteplici interessi di Gadda sono documentati: letterari, linguistici, e anche civili e politici. Una personalità speciale, tutto il contrario del carattere misantropico e misoneistico che gli è stato cucito addosso. E forte a molti tasti, resocontista professionale, documentato, ferrato, impegnato. Che tutti sa rendere interessanti. Un Gadda anche serioso, inventivo anche in questa veste, ingegnoso, propositivo. Sulla difesa del latino – lingua solida e durevole, esatta e quindi scientifica. Sulla ricerca dell’italiano – molti i contributi alla romana questione della lingua tra 1950 e 1960. Con Sinisgalli pedagogico e gnoseologico.

E uno perfino spensierato, negli anni 1960-1963, alla vetta degli onori e della sicurezza, col piccolo Nobel “Formentor”. Nella scrittura e nella corrispondenza, che la curatrice documenta in nota. Con “Il cetriolo del Crivelli” e altre prose divertite. A teatro si diverte senza vergogna, in tempi pure bui, aprile 1945. Alla “Cena delle beffe” inscenata dal duo Amedeo Nazzari-Rossano Brazzi alla Pergola di Firenze. Ai Satiri di Roma si avvicina con una buffa lettura della tonomstica, dai Giubbonari alla Pollarola e agli stessi Satiri – con Pompeo nel mezzo. O alle messinscene di “Luchino” (Visconti) – anche se a spese di Čechov: Gadda è difensore dell’ammodernamento scenico, dell’attualizzazione dei drammi e commedie. Notevole, oltreché al solito acuto, il riesame della “Mandragola”.
Un libro ponderoso. Testimone che le dure fatiche lamentate da Gadda non erano nevrosi. Dovette scrivere articoli, che lo angustiavano (gli prendevano una settimana e lo stremavano), per tutta la vita attiva in letteratura, dal 1927. Ma ben cosciente di sé, del capitale accumulato: “Il convoluto Eraclito di via San Simpliciano”, il domicilio milanese, si fa dire da Pasquali. E della propria debolezza: recensendo nel 1946 i “Pensieri” di Devoto s’illumina al § 6 del cap. “Antefatto”, “Capri espiatori”,  “di cui particolarmente ringrazio l’Autore”: “Lumeggia la psicosi dell’addebitamento di colpa, il meccanismo di formazione dei miti (erroneamente) punitivi in seno alla collettività stanca, delirante, malata”.  Ne dà conto, anche profuso, nella recensione di Berto, “Il male oscuro” – titolo e esergo Berto aveva mutuato dalla “Cognizione del dolore”: elaborata e concettosa, benché destinata alla lettura alla radio, sulle tante forme del mal di vivere. Senza privarsi di notare che spesso fa emergere il ridicolo.  
L’apologia manzoniana che apre la raccolta un po’ allontana: cerebrale, impositiva. Ma presto si riprende, già con le semplici recensioni gionalistiche, di Morand (“1900”), Arland (“Essais critiques”), il cugino Piero, Pierre Abaham, uno statistico di Balzac, pretesti al gaddismo puro – “Il modo dei modi è un mistero dei misteri, non meno che la causa delle cause”. Ironico e anzi beffardo volentieri, per la forza della logica – della cosa denudata, del dire senza già detto. Un volume perfino un po’ troppo denso.
Pieno di cose, naturalmente. Che riverberano sul fenomeno Gadda. C’è già nel 1932 la Brianza triste della “Cognizione del dolore”, nella recensione al cugino, eletto antifrastiscamente,  cioè ridotto, a cultore della Brianza (p.62): “Come specialista in fatto di Brianza intendo ed apprezzo quel pacato e malinconico lirismo gaddiano, che di là dai dolci pioppi d’Eupili avvolge il grigiore del Resegone”, con “la trombetta degli usseri nei chiari mattini” della caserma, “fragorosamente contrappuntato dalle campanone simplicianone”che interrompevano il sonno – “disciogliendosi ne’ loro sproloquî i bei sogni filosofici di mia primavera, fiorita di calcolo differenziale”.  Con una passione filologica dichiarata. Su Goethe e il “Faust”: Goethe è uno Shakespeare infelice nel “Faust”, enfatico, di testa, e Gadda lo mostra leggendo in parallelo l’“Amleto”. Della lirica e metrica di Catullo, di pregno o coltivatissimo sedimento filologico: nell’ambientazione politica, del poeta come anticesariano preveggente, nello studio ritmico, e “per la religiosa catarsi del carme 34 (che inspira il Carmen saeculare di Orazio)”.  Sulle traduzioni in genere, su quelle del “Faust e su quella di Manacorda. Su simbolo e allegoria. Sul senso religioso.
Con giudizi anche affilati. Non umorali, Gadda è professionale anche nelle recensioni: avvedute e spiegate. Contro Foscolo, contro Carducci – smonta il “Ça ira” verso a verso. Di Quasimodo traduttore di Catullo in versi liberi, operazione che in privato dice “uno spasso!”, (p. 503), si limita a concludere: “Siamo grati al poeta del poetico esperimento”. Su Montale ritorna quattro o cinque volte, superelogiativo (ma Montale era riservato nei suoi confronti, nota Liliana Orlando, che ha curato la raccolta), come su Bacchelli, incuriosito e forse irretito dal romanzo storico. Amichevole e lucido. Per “l’Aldo” soprattutto, Palazzeschi. Per Angioletti, suo nume tutelare in una lunga serie di occasioni, fino all’impiego provvidenziale, risolutivo, in Rai. Per Luigi Russo. E per Pasquali: amico e estimatore, l’autorevole filologo classico, che ama e apprezza la conversazione di Gadda come Gadda la sua, e lo conosce anche bene, se gli scrive, nel 1933: “Se una volta nella sua vita riuscisse a conseguire serenità e gioia, a esser meno malcontento almeno di sé”…”.
Saldo cristiano, con Rensi e il suo “umanesimo cristiano”, secondo dopoguerra. Anche ottimo reporter, minuzioso, inventivo: la visita di palazzo Braschi, nella lunga epifania dell’“Aldo” (Palazzeschi), è una sorpresa dietro l’altra. O la visita ai “Quartieri suburbani”, 1955, per la “Civiltà delle macchine”. Anche serioso: gli è capitato di fare il relatore a un premio di poesia, Le Grazie, nel 1949, assegnato a Parronchi – ne approfitta per l’ennesima filippica contro Foscolo, nel quale incarna il trombonismo ottocentesco, ma non si evita, qua e là, di apprezzarlo, per esempio come traduttore.
L’ultimo dei Quattro saggi che Gadda ha scritto su Belli, nel 1963, qui con il titolo “Canto, cantica, girone”, che tutti li riassume, è un manifesto di poetica. Con le parole di Vigolo, curatore nel 1953 dell’opera di Belli per i Classici Mondadori: “Il sarcasmo è in lui il virus antiretorico per eccellenza che agisce in profondità, rendendo impossibile una presa del falso sull’animo: è una «regola» spirituale che il Belli si dà ed è l’analogo perfetto, in sede psicologica, dell’altra regola che si era imposta nel linguaggio, escludendone ogni forma o modo che non fossero schiettamente di popolo”. Con la postilla, dopo aver riportato Belli a Porta: “Il dramma dell’espressione è nel Belli, come è nel Manzoni”. Rivendicandone, giulivo, “la dissonanza insistente – cupo pedale, dice Vigolo – tra la carcerata voce dell’io e il dorato coagulo del supersistema: aulico, accademico, instituzionale”. Con la conclusione, con parole proprie, programmatica: “La verità, la dialessi del Belli, comprende o comporta il mito plebeo della città e de’ suoi modi e delle sue genti: lo incorpora nel poema: e non solamente come antitesi… Col Belli, non meno che col Piranesi e col Pinelli, si finisce per amare la totalità di questo epos”.
Su Manzoni si commuove. L’“Apologia” è di testa, la critica al Manzoni di Moravia è invece veemente. “Ho letto dieci volte i P.S. da ragazzo fra i 9 e i 16”, premette scrivendone a Citati per un consiglio, “e sempre mi hanno incantato, pagina per pagina”. I Millenni Einaudi si erano affidati a Moravia per presentare la lussuosa edizione del romanzo, con tavole di Guttuso, e “Alberto” lo aveva fatto infuriare. La stroncatura della stroncatura di Moravia di rilegge come un capolavoro di filologia. E di storiografia, trattandosi di mondi e personaggi del Sei-Ottocento e di un romanzo storico: “Noi amiamo anche il passato, e leggiamo talora nel passato più veramente che nel futuro. Una storia ci può appassionare e incitare più che un’utopia”. Con una schematizzazione del romanzo che ne fa il primo caso di narrazione degli umili, e di denuncia dei poteri - il fine Ingegnere non dice che Moravia ha fatto il compitino sulla traccia di Gramsci nei quaderni del carcere, fa lui il vero trascinano. La chiusa è al “volemose bbene”, tirata sul pettegolezzo che tutti unisce, ma la tirata è ben polemica. Salvo beccare qua e là il Manzoni purista e poeta, il “futuro proprietario della villa di Brusuglio”.
Scritti da definire noti, perché tutti già pubblicati. Ma in epoche e su veicoli remoti. Riuniti insieme fanno una sorta di monumento. Non celebrativo, non è il Gadda a cavallo o il mezzobusto, ma un personaggio vivace, dagli interessi poliedrici, e sempre con qualche soddisfazione (curiosità) per il lettore: uno scrittore solido, con tutte le sue ansie e le ubbie. Più Gadda si conosce e più si irrobustisce.
Liliana Orlando, che cura la raccolta, ne facilita la lettura - e un po’ anche la rianima – con nutrienti note di contestualizzazione, lavorando sulla corrispondenza, le testimonianze, gli appunti, per lo più inediti. Una sottile tessitura imbastendo, senza parere, di fonti, rinvii, riferimenti, retropensieri dell’arguto incontenibile Ingegnere. 
Carlo Emilio Gadda, Divagazioni e garbuglio, Adelphi, pp. 554 € 26

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