Nel
villaggio ebraico di Goray presso Lublino, dopo una serie di pogrom specialmemte feroci dei cosacchi
ucraini e dei contadini polacchi, gli haidamak,
aizzati dall’atamano Bogdan Chmelniki, a partire dal 1648, sono ritornate dopo
qualche anno le famiglie già abbienti. Il rabbino Benish, colto, saggio e
vigile, ma con una famiglia disastrata. E il ricco Reb Eleazar, ora immiserito,
con la figlia Rechele. Una ragazza zoppa, pallida e presto invasata, che però,
“pur essendo affetta dalla deformità, destava pensieri peccaminosi negli
uomini”, e sarà la protagonista-vittima in questo romanzo gotico-vampiresco di
Singer. Un racconto di possessione, in espiazione o a condanna di un’ondata di
fanatismo messianico, a opera del falso profeta Sabbatai Zevi – uno dei tanti,
questo finito perfino mussulmano, per opportunismo. Di disprezzo della
“possessione”, che è solo spirito debole, stupidità: di Sabbatai Zevi i galoppini
magnificano la moglie Sarah in quanto “aveva lavorato in un bordello a Roma”.
È
la ritraduzione, di Adriana Dell’Orto, del primo romanzo di Singer, 1935.
Ritraduzione dall’inglese di Jacob Sloan, il traduttore accreditato delle opere di Singer – non il primo: fu Saul Bellow a
battezzare come traduttore Singer in inglese, nel 1953, sulla “Partisan Review”,
col racconto di “Gimpel l’idiota”, ma presto i rapporti si guastarono (Singer
si risentì dell’incipit di Bellow per “Le avventure di Augie March”, che pubblicava
quello stesso anno, ricalcato su quello di “Gimpel”: “Sono Gimpel l’idiota”, “Sono americano, nato a
Chicago” ). Il futuro Nobel, benché emigrato in quello stesso 1935 in America e presto
naturalizzato americano, scriveva e continurà a scrivere in yiddisch, il
tedesco degli ebrei europei centro-orientali. Una lingua bastarda che però
Mandel’stam ancora ne “Il
rumore del tempo”, 1925, celebrava “lingua melodiosa, interrogativa, sempre
stupefatta e delusa, con accenti marcati sui semitoni”. Mentre Singer, annotava
Magris, segna qui metaforicamente il tramonto: le comunità yiddisch erano ancora
fiorenti, il romanzo si pubblica nel 1935, ma Singer ne presentiva la fine. E
riprodurrebbe a futura memoria il piccolo grande mondo yiddisch nel 1665,
quando il messianesimo sembrò realizzarsi.
Tutto in effetti vi appare minato:
lo yiddisch, il pudore, l’arte e la stessa intelligenza. Ma in chiave satirica,
perfino sarcastica. Forse per il soffio dell’“Ecclesiaste”. Ma è la brutta
copia dello shtetl, il villaggio
patria ebraico che gli ebrei orientali magnificavano nostalgici negli stessi
anni 1930.
Nel lungo saggio che ha
accompagnato la prima traduzione - di Bruno Oddera per Bompiani, poi ripresa da
Longanesi - Magris ne fa il romanzo della demonologia ebraica. Del dibbuk, l’anima del peccatore morto che
prende possesso del vivente, Satana e Lilith insieme. È quanto lo stesso Singer
spiega nel penultimo capitolo. Qui della parte femminile della coppia
disgraziata, del rigattiere povero e forestiero Reb Itches Mates con la zoppa e
invasata Rechele. Singer ne tratta spesso nei racconti, dopo questo suo primo
romanzo.
Sul romanzo della fine
insiste Magris. Estendendola alla lingua, in accordo con Henry Miller: “Il
«dibbuk» personifica lo spirito della letteratura jiddish in quanto ‘lingua
morta” - nel 1935? Nella perdita più
generale dell’arte del racconto, continua Magris di suo, che Rilke, pure lui
fascinatore incontenibile come Singer, avrebbe anticipato nel “Malte”. Magris
lo dice anche connesso, il dibbuk, al
motivo “del messianesimo sabbatiano”, del falso profeta, “ossia, come si dice
alla fine del romanzo, all’empio e protervo disegno di «costringere il Signore»
e di «por termine alle nostre sofferenze nel mondo»”. Nel quadro del
“chassidismo”, della corrente cuturale ebraica non messianica, che vive giorno
per giorno, e delle minute occorrenze rende grazie a Dio. “Il romanzo di una
psicosi”, lo dice ancora Magris, quella del Messia.
Di fatto è un felicissimo
racconto. Tanto più per saper immortalare una realtà marginale, e quasi insostenibile,
se non inventata. Il racconto va spedito, in forma prima storico-documentaria,
poi gotica, quando gli eventi miracolosi e tragici si avvitano, per una lettura
costantemente golosa e semplice, senza traumi. Nel quadro storico
straordinariamente vivace di una “città” ebraica in Polonia nel Seicento, e
probabilmente attendibile. Un’opera che oggi non sarebbe più possibile,
l’antisemitismo avendo instillato troppi veleni, e quindi troppe difese. I
gentili, dice Singer senza veli, in un paio di righe, vi erano pochi, il minimo
indispensible per i lavori meniali del sabato e nei bagni, rinchiusi in un
ghetto.
Non un racconto lusinghiero. Magris
nella vecchia introduzione e Adelphi nel risvolto fanno molto caso di Henry
Miller, l’erotomane americano-parigino, “scopritore” e mallevadore di Singer: “Che meraviglioso,
meraviglioso mondo,un mondo bello e terribile, quello di Isaac Bashevis Singer,
benedetto sia il suo nome!”. Ma bello allora nel senso di mostruoso.
Un racconto
disturbante, di una “elezione” cieca, chiusa, vergognosa a uno spirito libero. Insensata
per sapersi predestinata. Nel tanfo di chiuso e di sporco. Potrebbe essere
un’opera antisemita, i cliché ci sono
tutti, come dati di fatto reali – tribali, caratteriali: stupidità e orgoglio,
fanatismo, classismo, superstizione, ignoranza, sudiciume, malattia, caratteriale
e materiale, violenza.
Isaac
Bashevis Singer, Satana a Goray,
Adelphi, pp. 182 € 18
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