“In
Inghilterra il patriottismo ha forme diverse per le diverse classi, ma si
svolge come un filo di collegamento attraverso quasi tutte. Solo l’intellighentsia
Europeizzata ne è realmente immune”. È riflessione del 1940, o 1941, de “Il
leone e l’unicorno: socialismo e il genio inglese”, un tributo affettuoso alla
tribù inglese aggredita da Hitler, una consolazione nel momento peggiore della
guerra. Come lo aggiornerebbe Orwell alla Brexit? Lo aggiornerebbe?
Due pagine
al centro del saggio, le ultime due del § 3, lasciano stupiti. “L’Inghilterra è
il paese più classista sotto il sole. È un paese di snobberia e privilegio,
governato soprattutto da vecchi e stupidi”. Ma “la nazione è legata insieme da
una catena invisibile”. Anche se “”in tempi normali la classe dirigente ruberà,
governerà male, saboterà, ci butterà nella merda”. Perché la corruzione o il
tradimento “quasi sempre è più nella natura dell’autoinganno, della mano destra
che non sa quello che la sinistra fa”. E subito dopo, avviando il § 4: “Uno dei
fatti dominanti della vita inglese negli ultimi tre quarti di secolo è stato il
degrado delle capacità della classe dirigente”. Con una chiara analisi dei
limiti di questa classe dirigente – limitata anche nel male. Avendo appena
concluso: “Una famiglia con i membri sbagliati al comando – questa, forse, la
descrizione più vicina possibile all’Inghilterra in una frase”.
Questo per
il “sistema”. Ma ci sono anche dei dati di fatto che riguardano la “gente”: “Durante la guerra del 14-18 la classe
lavoratrice inglese venne in contatto con gli stranieri in una misura che è
raramente possibile. L’unico risultato è che ne riportarono l’odio verso tutti
gli Europei, eccetto i Tedeschi, di cui ammiravano il coraggio. In quattro anni
in Francia non impararono nemmeno a farsi piacere il vino”. Non diverso
l’effetto della “europeizzazione” dell’intellighentsia, seppure per troppo
europeismo, per la sua “cronica insoddisfazione” verso tutto ciò che è inglese,
che la isolò – “l’altezzosità Bloomsbury, col suo risolino meccanico, obsoleta
come il colonnello di cavalleria”.
Le
differenze ci sono, si dice Orwell, e non vale negarle. Gli inglesi per
esempio, dice, non hanno genio artistico, contrariamente ai paesi europei.
Eccetto che in letteratura, specie nella poesia. Ma questa è legata alla
lingua, che è e non può essere che inglese.
L’insularità
non diminuisce l’atto d’amore di Orwell per Ia patria e i compatrioti. Anche se
personalmente non sarebbe stato per la Brexit, per un atto cioè di presunzione
– agli inglesi attribuisce l’insularità, naturalmente, ma non pretese di
superiorità. Anche se si rende conto che gli Scozzesi e i Gallesi potrebbero
avere riserve.
Un titolo
redazionale a tre lunghi scritti sulla guerra – tre scritti finora non tradotti
nelle raccolte saggistiche di Orwell. I “diari di guerra” – dove si interroga
più volte sullo strano destino degli italiani nell’Inghilterra in guerra contro
l’Italia. Due “lettere da Londra” alla rivista americana di sinistra
“Partisan”. E questo celebrato “Il Leone e l’unicorno”, che ebbe la prima
pubblicazione a metà febbraio del 1941, in lode del nazionalismo, ai limiti del
tribalismo.
Brexit naturalmente
non c’entra. Il tempo era di Hitler vittorioso e troppe ipotesi si facevano di
accettazione del totalitarismo – questo è un pezzo di storia che si trascura,
ma per due anni e mezzo Hitler è stato padrone di mezza Europa, per molti
convincente. Molte pagine Orwell spende – e la ragione è questa del saggio –
per spiegare che la democrazia, con tutti i sui limiti, non può apparentarsi al
totalitarismo, tanto meno asservirglisi. Finendo per liquidare la tentazione,
dopo tanto argomentare, come fisima intellettuale. Della intelligentsia “europeizzata”
che biasima da subito. Ma per il motivo che si lasciava influenzare dalla
Francia. Dove Hitler – altro fatto rimosso – era ben accetto: la guerra fu
combattuta senza impegno, la destra filotedesca era vasta e forte, e anche i
comunisti erano per Hitler, per il patto con Stalin.
George
Orwell, Diari di guerra, Oscar, pp. VIII-396 € 10
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