Una follia, il testo, e la
traduzione. Che ora si porta a termine, per gli ottant’anni della prima
pubblicazione dell’originale. E a quasi quaranta dall’avvio, “all’inizio degli
anni Ottanta”. A cura di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, al quale si deve una
corposa introduzione. E di una lnghissima serie di referenti, compreso il
presidente dell’Irlanda, il laburista poeta Michael D. Higgins.
Si dice “Finnegans”
l’impossibilità della traduzione. E invece è il paradiso del traduttore, che
deve senza più trucchi solo riscrivere il testo, reinventarlo. Magari dotandolo
di glosse golose, come in questa edizione: quest’ultimo volume ha quattrocento
pagine di varia filologia per 150 di testo. Un racconto dei traduttori, Luigi
Schenoni fino al 2008, alla morte, per I libri I e II, poi Terrinoni e Pedone.
Un racconto doppio, l’originale tradotto, e il racconto della traduzione. Una
traduzione che soverchia l’originale - necessariamente poiché è illeggibile, in nulla fruibile - la fantasia e gli umori
sovraccaricando di filologia.
Come Joyce lo intendeva è
stato già detto:
La concisa premessa di
Bartezzaghi, “La Bella Addormentata nel Chaosmos”, dice anche tutto. Apparentando
il “finneganese” alla lingua del Johan Padan di Dario Fo, un miscuglio di
idiomi diversi – diverso dal grammelot,
l’imitazione delle sonorità di una lingua che non si conosce. Il joyciano
Nabokov disprezzava “Finnegans”: “Letteratura regionale, scritta in dialetto”. Che
invece, da cultore in proprio dei giochi linguistici, avrebbe dovuto
apprezzare. “Finnegans Wake” è una parodia,
spiega lo specialista dei giochi, ma di tipo particolare. Non beffarda, o non
soltanto: “Non riguarda solo la ballata folk” su cui s’innesta, “La veglia di
Finnegan”, “investe temi mitologici, storici, filosofici, antropologici”. Vasto
disegno.
Si può dire “Finnegans” il
Genesi e la Bibbia di un Joyce profeta ghignante. Il progetto c’è, ovvio: una
storia universale, tra Vico e Mark Twain, le parole composte. Modellata su Vico,
riferimento costante in Joyce: “Io non credo in nessuna scienza, ma quando
leggo Vico la mia immaginazione fiorisce come non fa quando leggo Freud o Jung”
– l“Old Vico Roundpoint”, la rotatoria Vico, l’ “Ordovico or viricordo”. La
storia di una caduta – della Caduta, in continuo.
Una
storia di cui però non si viene a capo. Nemmeno sotto l’aspetto del piacere
linguistico, infantile, di lallazione, tra filastrocche e calembour. La traccia è minima. Un abbozzo, continuamente
“estraniato” (ribaltato, denunciato), di epopea o leggenda irlandese, di cui
una prima traccia è nei dieci racconti brevi raccolti nel 1923 sotto il titolo
“Finn’s Hotel”. Una parodia – nel frammento la parodia si dichiara e non si
dissimula. Che mette in burla, nel gioco di parole incontenibile, la storia
patria, dopo la capitale Dublino nell’“Ulisse” - “il passato, il presente, l’assente e il futuro”, come in “Finn’s Hotel”
si progetta.
Alla fine si conviene con
Giorgio Melchiori, che benediceva l’avvio della traduzione nel 1982 con un “La
banalità diviene memorabile” – ma l’inverso è più vero. Un testo che un suono più che
una prosa, forse articolato ma senza prosodia, un rumore. Una scrittura sonora, e un suono inordinato. Della
“scrittura” (sonorità) che una volta si diceva “in automatico”, o del “flusso”, perfino “di coscienza”. Un praticante di lingue che tutte storpia, anche la
sua. Di sonorità più che di sensi o significati. Come si figura una
conversazione fra sbronzi.
La chiave tecnica potrebbe
essere Lucia. Lucia Joyce era psicotica, col padre James, amorevole, parlavano
una lingua significante ma chiusa a loro due. La tematica è di un racconto
zuzzurellone sulla morte. Per il senso della morte peculiare di Joyce, della
ballata popolare di metà Ottocento dalla quale deriva il titolo, del suo
celebre racconto “The Dead”, e dello stesso “Ulisse”, che ripercorre tra i vivi
il “Finnegan’s Wake” della ballata popolare, la veglia e il lamento funebri. Che sono la recitazione di una
vita, della vita.
James Joyce, Finnegans
Wake, III (§§ 3 e 4), IV, Oscar, pp.687 € 24
Lui, Joyce,l’opera così licenziava scrivendo a
Livia Svevo, la vedova, il 15 maggio 1939, in giocoso triestino: “Giovedì sarà
publicado el mio libro a Londra e in Ameriga. Ze anca la festa de Santa Moniga
se mi ricordo ben, al quatro. Moniga son stado mi forse (La mi scusi, siora)
che go meso disdoto ani dela mia vita a finiri quel mostro de libro. Ma cossa
La vol? Se nasse cussì”.
Nessun commento:
Posta un commento