Una
visione. Dall’idillio, col valzer sognante al secondo movimento, e gli elfi e
le fate del terzo. Al sabba, cui Berlioz non fa mancare il “Dies Irae”, trademark dell’“impio” (non pio), ma con
trilli giocosi dei violini. Una favola, la favole dell’amore. Un exploit dela
forza di Beethoven. Che consacra lo sconosciuto, autodidatta, musicista. Una
composizione subito famosa, di autore prima non considerate, per una storia
inverosimilmente capricciosa – come tutte quelle di Berlioz con le donne.
La
storia infatti è diversa – la musica non si fa condizionare dalla storia. La
Sinfonia nacque ispirata dall’attrice Harriet Smithson, l’irlandese che recitava
Shakespeare a Parigi. Che Berlioz, affatato, insistette per prendere in moglie,
con un profluvio di lettere. Harriett resistette. E quando cedette le andò
tutto storto.
Miss
Smithson evitò a lungo ogni incontro col compositore, perfino le prime
esecuzioni della “sua” sinfonia, da lei ispirata. Quando infine cedette, fu fischiata
a teatro, ebbe il volto sfregiato dal fuoco, finì invalida e querula, e morì
sola in povertà, ventisette anni dopo il fatale incontro, lasciando infine
libero Berlioz, che da mesi faceva di nascosto il trasloco dalla loro casa
coniugale, un pacchettino alla volta, di risposarsi immediatamente.
Scrivendo
di “Lélio” a miss Smithson, 1832, due anni dopo la “Sinfonia fantastica”, Berlioz
faceva, dopo quello che sarà lo “Chant d’amour”
per tenore e arpa, la suprema confidenza: “L’amico, l’amante tuo, t’invoca in
soccorso”. Glielo scriveva in alessandrino, prolisso come in musica, dopo
averla chiamata Ofelia e Giulietta – aveva avuto il colpo di fulmine ascoltando
Harriet in teatro nel ruolo di Ofelia: “Oh perché non ritrovarla, questa
Giulietta, questa Ofelia che il mio cuore invoca! Perché non posso inebriarmi
della gioia mista a tristezza che il vero amore offre, e una sera d’autunno,
cullato con essa dal vento del Nord su qualche selvaggia brughiera,
addomentarmi infine tra le sua braccia in un malinconico ed estremo riposo”.
Miss Smithson non era superstiziosa. Non che si sappia. Ma, essendo Ofelia non
soltanto sul palcoscenico, “sapeva” che la stessa lettera Berlioz l’aveva
composta per la già nota pianista Camille Moke.
Camille,
“grazisoa ragazza”, amica del pianista-compositore Ferdinand Hiller, a sua volta
confidente delle pene amorose di Berlioz, sarà autrice di pettegolezzi
micidiali su Harriet, di ritorno da fallite tournées in Olanda e
Inghilterra, e sul punto di essere abbandonata dal pubblico parigino. Non era
sola: “La compiango e la disprezzo”, scriveva Berlioz all’amico Ferdinand, “è una donna
ordinaria, dotata di un genio istintivo per esprimere gli strazi dell’animo
umano, che essa non ha mai provato, e incapace di concepire un sentimento
immenso e nobile come quello del quale la onoravo”. Scrive di Harriet, che poi
sposerà, non di Camille. Della bella pianista, di cui ha avuto il letto e la
promessa, il compositore ha anche la sorpresa a distanza di qualche settimana
di saperla sposata.
“Non potevamo vivere insieme, né lasciarci”,
dirà Hector in morte di Harriet Smithson. Per tre anni ha abitato
nell’appartamento di lei, ottenendone un “vi amo” ma non il letto. Sposando nel
1833 la matura attrice la trova, scrisse a Liszt, “vergine, tutto quello che
c’è di più vergine”. Nel 1848 Harriet, al quinto attacco, resta paralizzata.
L’agonia sarà lunga sei anni. E solo allora Hector, a cinquant’anni, si sentirà
libero, dopo l’interminabile trasloco, di sposare Maria Recio, una cantante che
“canta come dodici gatti”, la cui stupidità aveva per anni fuggito, che lo
teneva coi fianchi forti e gli impedirà l’amicizia di Wagner e ogni altra
opportunità.
Già dieci anni prima a Praga, dopo essere stato
riacciuffato a Weimar da Maria, che aveva disertato la notte a Mannheim,
l’aveva presentata come sua nuova moglie, dicendo Harriet morta. Preparava le
vacanze con Maria con la stessa metodica del trasloco finale, facendo uscire di
casa per più giorni in pacchetti i materiali musicali e ciò che gli serviva per
il viaggio, e la stessa Maria lasciò a Mannheim con analoga tecnica. Ma non si
può dire nemmeno Berlioz uomo di nessuna amabilità, poiché tante donne lo
importunarono con perseveranza. Il destino a volte si prevale della mediocrità
delle persone e della storia.
Pappano ha esaltato, trascinante, i toni
melodici. Fino a privarsi nel quinto movimento, del sabba, dei violini e le viole
che con l’archetto percuotono lugubri il legno. Secondato dallo stato di grazie
dei fiati, oltre che degli archi all’unisono. Il pianista Kissin, che ha voluto
assistere alla “Sinfonia” dopo la sua performance, il Concerto n. 2 di Lizst, seguito
da ben quattro bis, ne era estasiato.
Hector
Berlioz, Sinfonia fantastica,
Antonio Pappano, orchestra e coro dell’Accademia Santa Cecilia, Roma
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