sabato 19 ottobre 2019

La sinfonia dell’amore


Una visione. Dall’idillio, col valzer sognante al secondo movimento, e gli elfi e le fate del terzo. Al sabba, cui Berlioz non fa mancare il “Dies Irae”, trademark dell’“impio” (non pio), ma con trilli giocosi dei violini. Una favola, la favole dell’amore. Un exploit dela forza di Beethoven. Che consacra lo sconosciuto, autodidatta, musicista. Una composizione subito famosa, di autore prima non considerate, per una storia inverosimilmente capricciosa – come tutte quelle di Berlioz con le donne.
La storia infatti è diversa – la musica non si fa condizionare dalla storia. La Sinfonia nacque ispirata dall’attrice Harriet Smithson, l’irlandese che recitava Shakespeare a Parigi. Che Berlioz, affatato, insistette per prendere in moglie, con un profluvio di lettere. Harriett resistette. E quando cedette le andò tutto storto.
Miss Smithson evitò a lungo ogni incontro col compositore, perfino le prime esecuzioni della “sua” sinfonia, da lei ispirata. Quando infine cedette, fu fischiata a teatro, ebbe il volto sfregiato dal fuoco, finì invalida e querula, e morì sola in povertà, ventisette anni dopo il fatale incontro, lasciando infine libero Berlioz, che da mesi faceva di nascosto il trasloco dalla loro casa coniugale, un pacchettino alla volta, di risposarsi immediatamente.
Scrivendo di “Lélio” a miss Smithson, 1832, due anni dopo la “Sinfonia fantastica”, Berlioz faceva, dopo quello che sarà lo “Chant d’amour” per tenore e arpa, la suprema confidenza: “L’amico, l’amante tuo, t’invoca in soccorso”. Glielo scriveva in alessandrino, prolisso come in musica, dopo averla chiamata Ofelia e Giulietta – aveva avuto il colpo di fulmine ascoltando Harriet in teatro nel ruolo di Ofelia: “Oh perché non ritrovarla, questa Giulietta, questa Ofelia che il mio cuore invoca! Perché non posso inebriarmi della gioia mista a tristezza che il vero amore offre, e una sera d’autunno, cullato con essa dal vento del Nord su qualche selvaggia brughiera, addomentarmi infine tra le sua braccia in un malinconico ed estremo riposo”. Miss Smithson non era superstiziosa. Non che si sappia. Ma, essendo Ofelia non soltanto sul palcoscenico, “sapeva” che la stessa lettera Berlioz l’aveva composta per la già nota pianista Camille Moke.
Camille, “grazisoa ragazza”, amica del pianista-compositore Ferdinand Hiller, a sua volta confidente delle pene amorose di Berlioz, sarà autrice di pettegolezzi micidiali su Harriet, di ritorno da fallite tournées in Olanda e Inghilterra, e sul punto di essere abbandonata dal pubblico parigino. Non era sola: “La compiango e la disprezzo”, scriveva  Berlioz all’amico Ferdinand, “è una donna ordinaria, dotata di un genio istintivo per esprimere gli strazi dell’animo umano, che essa non ha mai provato, e incapace di concepire un sentimento immenso e nobile come quello del quale la onoravo”. Scrive di Harriet, che poi sposerà, non di Camille. Della bella pianista, di cui ha avuto il letto e la promessa, il compositore ha anche la sorpresa a distanza di qualche settimana di saperla sposata.
“Non potevamo vivere insieme, né lasciarci”, dirà Hector in morte di Harriet Smithson. Per tre anni ha abitato nell’appartamento di lei, ottenendone un “vi amo” ma non il letto. Sposando nel 1833 la matura attrice la trova, scrisse a Liszt, “vergine, tutto quello che c’è di più vergine”. Nel 1848 Harriet, al quinto attacco, resta paralizzata. L’agonia sarà lunga sei anni. E solo allora Hector, a cinquant’anni, si sentirà libero, dopo l’interminabile trasloco, di sposare Maria Recio, una cantante che “canta come dodici gatti”, la cui stupidità aveva per anni fuggito, che lo teneva coi fianchi forti e gli impedirà l’amicizia di Wagner e ogni altra opportunità.
Già dieci anni prima a Praga, dopo essere stato riacciuffato a Weimar da Maria, che aveva disertato la notte a Mannheim, l’aveva presentata come sua nuova moglie, dicendo Harriet morta. Preparava le vacanze con Maria con la stessa metodica del trasloco finale, facendo uscire di casa per più giorni in pacchetti i materiali musicali e ciò che gli serviva per il viaggio, e la stessa Maria lasciò a Mannheim con analoga tecnica. Ma non si può dire nemmeno Berlioz uomo di nessuna amabilità, poiché tante donne lo importunarono con perseveranza. Il destino a volte si prevale della mediocrità delle persone e della storia.
Pappano ha esaltato, trascinante, i toni melodici. Fino a privarsi nel quinto movimento, del sabba, dei violini e le viole che con l’archetto percuotono lugubri il legno. Secondato dallo stato di grazie dei fiati, oltre che degli archi all’unisono. Il pianista Kissin, che ha voluto assistere alla “Sinfonia” dopo la sua performance, il Concerto n. 2 di Lizst, seguito da ben quattro bis, ne era estasiato.
Hector Berlioz, Sinfonia fantastica, Antonio Pappano, orchestra e coro dell’Accademia Santa Cecilia, Roma

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