domenica 17 novembre 2019

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (409)

Giuseppe Leuzzi


Svimez censisce due milioni di emigrati dal Sud nel Millennio. Sono più di tutti gli immigrati da cui l’Italia si sente invasa.

A un controllo dei Carabinieri nella napoletana Moreno confezioni sono risultati impiegati 78 dipendenti, tutti italiani, di Napoli e dintorni, “di cui solo ventuno assunti regolarmente. Gli altri 57 lavoravano senza contratto per 9 ore al giorno per una paga quotidiana di 20 euro” – “Corriere della sera” . Non sembra vero. Ma è vero che tutti erano anche in disoccupazione o in reddito di cittadinanza.

La Banca d’Italia calcola che un quarto della produzione (“valore aggiunto”) si è perduto al Sud nei soli dieci anni dopo la crisi del 2007 – qualcosa in più quindi nel 2018 e 2019? è probabile. Non si investe più al Sud da un dodicennio, o comunque si investe molto meno di quanto si disinveste, dei fallimenti e gli abbandoni.

“Il più grande imprenditore di Roma è il Tribunale”, è la sintesi di Salvatore Giuffrida su “la Repubblica”, “gestisce 500 imprese”. Quelle sequestrate ai clan di mafia. Però: “Gestisce 500 imprese e il 90 per cento è in attivo”. Le mafie sanno investire.

Si rammemora il Regno, sottinteso un mondo d’elezione, ma i siciliani non sanno nemmeno dov’è Napoli. Nessun siciliano è mai andato a Napoli, nessun napoletano a Palermo o Catania. Le province pugliesi commerciavano liberamente con l’Illiria, con Venezia cioè, e con la Turchia.

Sindrome avvocatesca, levantina, su Taranto
Era Taranto una cosa seria. Una cosa cioè, che al Sud è rara: un grande stabilimento siderurgico, il più grande, pare, d’Europa, che rifornisce mezza industria italiana e esporta molto, impiega novemila tecnici e operai, e pone problemi acuti di inquinamento. Si penserebbe: riduciamo l’inquinamento, eliminiamolo se possibile, e continuiamo a produrre, magari di più. E invece no. Una giudice di Taranto e una ministra di Lecce non vogliono l’acciaieria, e ci sono riuscite: la giudice ha imposto la chiusura dell’altoforno centrale dell’impianto, la ministra ha imposto il carcere ai gestori in quanto inquinatori. Non ai gestori dell’impianto quando inquinava, pubblici (dell’Italsider-Iri) e privati (la famiglia Riva), ma agli attuali, quelli trovati con una lunga e faticosa ricerca, dopo il fallimento dei Riva, che nel contratto di affitto dell’impianto col governo si sono impegnati invece al disinquinamento, con tappe fissate.
I gestori minacciati dal carcere se ne vanno, sicuri del loro buon diritto – nessuno è responsabile di colpe non sue – e la sindrome avvocatesca, levantina, del Sud si scatena. I tre commissari governativi di sorveglianza sull’acciaieria accusano la gestione di nefandezze di ogni tipo. La denunciano a Taranto e a Milano – anche a Milano perché la Procura vi è gestita stabilmente da napoletani. Francesco Ardito, di Fasano, e Antonio Lupo, di Grottaglie, eletti al prestigioso incarico  dalla ministra leccese, col concorso di un avvocato milanese, Antonio Cattaneo, cercano di guadagnarsi il cachet con le denunce. E gli investimenti, inclusi per la salute dei lavoratori e di Taranto? I mercati? La competitività? L’occupazione, nello stabilimento e in tutta la regione?
La ministra leccese, che ha nominato i compaesani per chiudere l’acciaieria, il suo partito l’ha messa fuori dal governo, il movimento 5 Stelle. Ma il partito, benché creato e gestito da un comico genovese, è essenzialmente napoletano e meridionale – pugliese, siciliano. Le chiacchiere, quindi, si sprecano. Facciamo questo, facciamo quello, chiudiamo l’impianto, lo nazionalizziamo, lo trasformiamo in un centro turistico, facciamo di Taranto una nuova Venezia, prepensioniamo tutti i tarantini. Eccetto l’unica soluzione buona, anche giuridicamente – gli avvocati pugliesi perderanno tutte le cause, non si condanna nessuno per colpe non sue: lasciar lavorare l’impianto secondo i contratti sottoscritti.
Ma c’è ancora un ma: la politica non centra. È 5 Stelle anche l’amministratore delegato dell’impianto, Lucia Morselli. Quella che ne ha deciso la chiusura, a fronte del carcere. E lei non fa chiacchiere. Lei è di  Modena, e lavora a Milano..
Bisogna essere razzisti a volte, perché no. Fa bene l’Italia a non fidarsi, il Sud può essere molto serio, e molto fragile: opportunista, traditore, sciocco. E cosa non farebbe per uno stipendio da commissario governativo. Commissario a qualsiasi cosa, anche a un’acciaieria. Anche se ci vuole una laurea in legge.

Il Sud di Nietzsche, o la pienezza di sé
Da tempo in sospetto e anzi vituperato, il Sud aveva in Nietzsche un portabandiera convinto,  e costante. Per una triplice ragione di amore, scrisse da ultimo in “Al di là del bene e del male”, nella parte ottava, “Popoli e patrie”, al § 255 (in polemica contro “la musica tedesca”): “Come una grande scuola per la guarigione, nell’ambito spirituale e in quello sensuale, come una illimitata pienezza e trasfigurazione solare, che si espande su un’esistenza autonoma e piena di fede in sé”.
Subito prima, a proposito della Francia faro di civiltà nel secondo Ottocento, specie in confronto con la Germania, ne attribuiva la preminenza – in aggiunta alla “facoltà di provare passioni artistiche”, e alla “antica, molteplice cultura moralista” – alla “sintesi quasi riuscita di Nord e di Sud”: “Il loro temperamento, periodicamente propenso e contrario al Sud, nel quale a tratti trabocca il sangue ligure e provenzale, li difende dall’orribile grigiore nordico e dall’anemia e fantomaticità concettuale prive di solarità”. Bizet spiegando di apprezzare perché “ha visto una nuova bellezza e una nuova seduzione , ha scoperto un brandello di Sud della musica”.

Il silenzio di Napoli
Cazzullo ripropone sul “Corriere della sera” la terribile nottata di Italia-Argentina a Napoli, semifinale del Mondiale 90. Ripropone cioè la questione: per chi tifò Napoli. Essendoci stati, in tribuna stampa, per lavoro, si può la verità: Napoli non tifò Italia.
Fu una partita noiosa – rispetto a quelle a cui l’Italia 90 aveva abituato, tutte spumeggianti. Una notte non afosa, benché fosse il 3 di luglio, ma nervosa. L’Argentina rissosa più del suo solito. Compreso Maradona, che di solito non litigava. E l’Italia impaurita. Forse per motivi tecnici, o di tattica. Sicuramente per motivi ambientali. Per il silenzio, cui l’Italia all’Olimpico non era abituata.
Il silenzio era minaccioso. Il catino del san Paolo appariva buio più che illuminato – era sicuramente illuminato, ma nulla confronto dell’Olimpico, dei colori, della festa. In tribuna stampa le due ore furono di disagio, fin dall’ingresso, prima delle squadre: le postazioni erano già occupate, da una o due persone, giornalisti locali o presunti, che non si scusarono e dialogavano solo fra di loro, in dialetto forzosamente stretto, una sorta di linguaggio cifrato, benché ad alta voce, molte le donne, molte grasse.
La partita fu vissuta da cronista anche con questa stretta non amichevole ai fianchi e alle spalle – mai avuto tanto fiato sul collo e contatti corporei sgraditi, neanche da ragazzi sulle gradinate in curva. Qualcuno dei cronisti abituali azzardò che gli ingressi in tribuna stampa erano stati venduti. Ma se fosse stato vero sarebbe stato meglio, sconfortava la prepotenza.
Restava anche viva l’impressione di una sorta di “protezione” per la squadra di Maradona, da Argentina-Camerun che un mese prima aveva inaugurato il Mondiale. Nel bellissimo catino del “Meazza” di Milano, vivacissimo, coloratissimo, l’arbitro fece di tutto per far pareggiare Maradona, con due espulsioni e sei minuti di recupero alla fine, un extra-time allora impensato.
Il disagio c’era, prima, durante e dopo. L’Italia perse il Mondiale che aveva già praticamente vinto - comunque da finale – e niente. Silenzio.  
L’evento si può registrare negli annali, di una Napoli muta invece che rumorosa. Si tentò anche, tra cronisti, di giustificare la città, di apprezzarne l’affetto verso Maradona, che alla sua squadra e al calcio italiano  aveva dato tantissimo, di dedizione e anche buone azioni. Ma senza convinzione.
È stata forse quella che Napoli è, una città che si vergogna di se stessa. Che sa che non può essere quello che è, lo sa da molto tempo, già prima dell’unità a leggere i suoi scrittori (De Santis eccetera), ma non sa cambiare.


leuzzi@antiit.eu

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