Molti mafiosi condannati sono riconosciuti
nullatenenti, - ai fini del risarcimento delle parti civili. Ma un mafioso
nullatenente “non esiste” – è una contraddizione in termini, direbbe un
avvocato. Tanto più che non mancano di buoni avvocati.
C’è anche in “Aspromonte”, il film di Calopresti, come in
tutti i (pochi) film di ambiente calabrese Marco Leonardi. Dacché ha
impersonato Salvatore adolescente del film premio Oscar “Nuovo cinema Paradiso”.
Un attore di “presenza” fisica, dice senza parlare. Ma condannato a fare il calabrese,
perché parla e impersona il calabrese nel modo più naturale – cioè piano:
piatto, accennato. Quindi a lavorare poco, nei pochi film in cui ce n’è uno.
Mentre è nato a Melbourne. Di padre calabrese, è vero.
Africo, nel reggino jonico, è sinonimo
in una vasta pubblicistica, da Stajano a Criaco, di violenza e disperazione. Ma
è stato l’ultimo caso in Italia di ingegneria emergenziale riuscita, in
occasione di eventi naturali devastanti, terremoti, alluvioni - si ricostruiva
in area più sicura. Il paese è stato ricostruito a valle, al mare. In sei anni.
Laura Ferrara, “napoletana di
nascita ma cosentina di adozione” (“la
Repubblica”), eurodeputata 5 Stelle, si considera eletta “in una terra di
malaffare”.
La Francia, la Francia del Sud,
rigurgita di immigrati nel 1934, quando Soldati fa il suo viaggio a Lourdes. Al
confine verso la Spagna il regista scrittore trova “migliaia e migliaia di
spagnoli: rigurgitava”, scrive nel racconto dal titolo omonimo, “di baschi,
navarrini e catalani, come le due Savoie e il Delfinato di piemontesi, veneti e
lombardi”. La geografia economica cambia velocemente, basta l’applicazione. Veneto,
Lombardia, Catalogna , paese Basco ora sono terre di forte immigrazione, il Piemonte
lo è stato, solo un decennio dopo il viaggio a Lourdes.
W.H. Auden, “Sonnets for China”, XVIII:
“Gelati dal Presente, rumoroso e grigio
Sospiriamo al risveglio per un Sud
antico,
Una calda nuda età d’innata compostezza
Un gusto di gioia in una bocca
innocente”.
L’abbandono
delle borghesie
A vedere “Aspromonte. La terra degli
ultimi” al cinema Intrastevere sono persone in età, molto ben messe, con
conoscenze reciproche, anche se distaccate. Modi e portamenti di due e tre
generazioni fa, del “Sessantotto”, che hanno abbandonato la Calabria, cui
restano sentimentalmente attaccati, ma con vita propria, e remota.
Vedono il film con curiosità, senza
commozione. Una storia di sentimenti primigeni, la vita, la morte, la fame, la
miseria, l’abbandono, la sopraffazione, la giustizia, la speranza. Ambientata
nel 1951, alla vigilia dell’alluvione che cancellerà della derelitta Africo
anche le tracce fisiche. Rivista con l’ottica dell’inchiesta di Zanotti Bianco e
Manlio Rossi Doria, e della Conferenza “Calabria” di Corrado Alvaro al Lyceum
di Firenze dieci anni dopo. Di case dirute dai terremoti, di una comunità isolata,
senza strada, senza medico, senza scuola, alimentata poveramente, con un pane
di cicerchie e lenticchie – Alvaro dirà di africoti trovati nella bassa
emiliana a masticare la paglia. Di uno Stato assente ma esoso, che le tasse,
per quanto minime, esige comunque.
Un pubblico che si assimila, alla vista,
a Fulvio Lucisano, il produttore romano del film che si dedica un cameo, la
scena finale. Anche lui come Calopresti, il regista, attaccato sentimentalmente
alla Calabria, sebbene solo per amore del padre, che ne era originario.
Il distacco potrebbe venire dall’attualità. Sono partiti loro, altri dopo di loro sono partiti, e la Calabria ha cominciato a beccheggiare all’indietro, sempre più giù nelle graduatorie del reddito e della qualità della vita, malgrado i tanti atouts naturali. Non una diserzione, ognuno ha seguito un suo percorso. E del resto nessuno è indispensabile. Ed è giusto che gli altri, tutti i ceti sociali, facciano le loro esperienze, è il bene della democrazia – non si è sempre detto che il Sud non progrediva perché tappato dai notabili?
Il distacco potrebbe venire dall’attualità. Sono partiti loro, altri dopo di loro sono partiti, e la Calabria ha cominciato a beccheggiare all’indietro, sempre più giù nelle graduatorie del reddito e della qualità della vita, malgrado i tanti atouts naturali. Non una diserzione, ognuno ha seguito un suo percorso. E del resto nessuno è indispensabile. Ed è giusto che gli altri, tutti i ceti sociali, facciano le loro esperienze, è il bene della democrazia – non si è sempre detto che il Sud non progrediva perché tappato dai notabili?
Ma forse c’è un limite alla democrazia.
Che in Calabria sembra non avere limiti nello sfacelo, la neghittosità, la mera
incompetenza. E vera e propria corruzione. Con i tre ultimi presidenti della
Regione, Loiero, Scopelliti, Oliverio, due di sinistra, uno di destra, inquisiti, e elezioni anticipate. Di una Regione che non
si sa governare, nelle aree di sua competenza: il territorio, la sanità, la
viabilità. L’unica per la quale le autonomie regionali sono state un disastro –
basta vedere al confronto i balzi in avanti giganteschi della Basilicata, della
Puglia meridionale (il Salento), dell’Abruzzo e del Molise evidentemente, e
delle grandi province campane di Salerno e Benevento. Un disastro.
La
processione del libero arbitrio
Non si parla più delle processioni in
Calabria. I Carabinieri non hanno prodotto più video di inchini ai mafiosi,
dopo quello virale di Tresilico qualche anno fa, e la polemica forse si è
spenta. O forse le processioni non si fanno più, ai vescovi non piacciono - “sono
paganesimo”,
Tullia d’Aragona, oggi sconosciuta, ne faceva prova del libero
arbitrio. Poetessa e commediografa attiva a famosa nel primo Cinquecento, muore a Roma a marzo del 1556, di 46 anni,
dopo un lungo soggiorno a Firenze, onorata, benché figlia di una cortigiana. Tra i suoi sonetti più famosi vi è quello contro il predicatore Bernardino Ochino, che, con rigore non lontano dal
luteranesimo, aveva aspramente condannato le mascherate, la musica ed il ballo.
Nelle ultime due terzine del sonetto si legge: “Or le finte apparenze, e ‘l ballo, e ‘l suono / chiesti dal tempo e da
l’antica usanza / a che così da voi vietate sono? / Non fôra santità, fôra
arroganza / tôrre il libero arbitrio, il maggior dono / che Dio ne diè ne la
primera stanza”.
Mario Soldati, al termine del suo
scettico “Viaggio a Lourdes”, partecipando da cronista coscienzioso alla
processione notturna alla Grotta, “di infermiere, lettigari e pellegrini non
malati”, si ricrede, in un certo modo. “È uno spettacolo idillico, poetico”, al
canto della “fanciullesca e pastorale Ave
Maria di Lourdes”. Un po’ troppo luminoso, “sembrava una réclame di
Piccadilly o di Times Square”. “Eppure, a ripensarlo oggi, a udirlo nella
memoria, quel canto notturno che lento saliva implorando, confidando, sperando…
Si nasce, si vive, si muore, e non sappiamo il perché. Ma chi, almeno una
volta, non ha sperato? Abbiamo forse qualche altra verità?”
Aspromonte
Montagna
umida e secca, aerata dai mari. Di risorgive e gurnali - pozze di acqua viva, lungo le fiumare.
Ombrosa per lo più, profumata. Gentile, non arcigna. Aperta, non segregata. Segnata da
alpeggi. E da sicuri sentieri per bovini e ovini, in trekking singolo o di
gruppo.
I
nomi delle sorgenti segnano l’avvicendarsi delle popolazioni, dai greci agli
arabi. Il più ricorrente è Ceramida, in varie declinazioni. Anche Brisia, (Visia, Vrias, Vrise, Vrisi, V
ausi), Pigadi-Pigì (fonte), Zijia, (oxeia,
impetuosa), Scifos, vaso, e Vasì-Vasìa (batheia,
copiosa, profonda).
“In
Aspromonte, dopo aver consumato il pasto non si rassetta la tavola fino al
pasto successivo: perché le cose messe a posto possono essere travolte da un
terremoto o da un’alluvione” – Francesco Verderami, “Montagne nella magia di
Omero”, in “Buone notizie”, 7 maggio 2019. Non è vero ma è ben immaginato: dà
l’idea della precarietà, dell’isolamento.
Verderami,
che gioca in prima squadra al “Corriere della sera”, è di Gioia Tauro. Sa
quindi poco dell’Aspromonte, e per sentito dire – nella Piana non sanno niente
della Montagna. Per il bene, per il male, non importa: i mondi locali sono
frammentati.
Girolamo
Deraco, il musicista di Cittanova trapiantato a Lucca, ha una “Sinfonia in
Aspromonte” elegiaca, intervallata obbligatoriamente dalla tarantella, dal
ritmo – ma anch’esso allentato, come in sordina. È una montagna sulfurea nel
nome, però pacifica. Solitaria dentro l’affollamento.
Una
montagna si può dire anche antropizzata – in quanto montagna: del Parco aspromontano
fanno parte 37 Comuni. Però modesta, e silenziosa. Per nulla sulfurea come la
vuole la fama.
Il trek per antonomasia dell’Aspromonte
era per la “spuntata” del sole - tre ore di sentiero, tre larghe lunette dai
piani di Carmelia, un impettata per via diretta da Gambarie (ora si arriva al
Montalto comodamente in auto).
Per quale fascino? Si trova a p. 527 dell’ultimo
romanzo di Dominique Fernandez, “La société du mystère”: “Si direbbe un pennello
che disegna con la luce. La grande arte (segue panegirico del degradato, del
fluttuante, dello sfumato, le ambizioni di una maniera troppo assoggettata al
disegno, n.d.r.), consiste nel modellare ciò che si rappresenta senza mostrare
il bordo delle superfici. Dove si trova il limite tra l’ombra e la luce in ciò
che il sole fa sorgere dall’oscurità. Tenta di posare il dito sui contorni che
emergono sotto i suoi occhi e si muovono a mano a mano che il sole distacca le
cose dalla penombra in cui erano infognate alcuni secondi prima. La linea di
demarcazione non risucirai a scoprirla”.
Una metamorfosi. La luce che varia, visibilmente,
una trasmutazione.
Notte d’estate ventilata, acqua fresca
tranquilla, pini fitti infinitamente silenziosi. Tignole e falene volteggiano
nell’ombra silenziose, abbagliate dalla fiamma del fuoco, dal profumo della
salsiccia sulla brace. Non un gemito, non un sospiro, un rumore qualsiasi,
Romeo non ronfa nemmeno. Da quest’ansa il chiocchiolìo dell’acqua non si sente,
ma “si sente”. Il riposo è dalla fatica, lieve, della toponomastica a ogni
passo. I luoghi, ogni luogo, ogni angolo, ogni “rasula” ha un nome, quindi è
stata abitata, coltivata, curata. Sono nomi greci per lo più, di luoghi quindi
abitati da sempre. Che ora si fatica a memorizzare – a ricordare non come un tesoro
di cui si fosse persa la chiave. C’è stata una continuità, per secoli e
millenni, e ora non c’è più, non sono vuoti di memoria. Anche i silenzi non
sono più quelli, benché la Montagna sia sempre solitaria. Giusto qualche picchio, oggi come allora, la
mattina. E una sega, che va e vene col vento.
È un montagna varia, la montagna sul
mare. Non un cono spelacchiato, come possono essere i vulcani ancora emersi, ma
una montagna, di valli, anfratti, dirupi, pianure nascoste, alpeggi, con qualche
dente perfino da scalare. Che però i locali non vedono, o vedono uniforme,
grigia, spenta, come può essere o essere stata la vita di molti – come lo è
qualsiasi vita quando non c’è la speranza, e la speranza è quello di cui il Sud
manca, che ha spento, o ha consentito e contribuisce a spegnere, la volontà di
fare. Gli ultimi film si adattano a questa immagine grigia, anche i più
nostalgici. Di più il più nostalgico, di Mimmo Calopresti, di Polistena – con
Fulvio Lucisano, attaccatissimo alla terra di suo padre, che veniva da Villa San
Giovanni. Il loro Aspromonte è monocromo, monotono, ripetitivo, dall’orizzonte
chiuso – mentre la natura vi è esattamente al contrario, aperta, in ogni piega,
e questo è anzi il suo primo pregio. O incupito dagli eventi, ingrigito, senza
luce: una Montagna adattata alla storia, evidentemente, semplice fondale
espressivo, ma è un po’ che l’Aspromonte ha solo questa faccia, da Corrado Alvaro,
quasi un secolo.
leuzzi@antiit.eu
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