La trama di Scorsese fa dimenticare che è il
racconto di un killer – Frank è uno che “dipinge case”, un killer
professionale. Un racconto anche freddo. Di figure marginali. Che però sa erigere a personaggi eponimi, seppure del male: figure concresciute su se stesse, che non sanno essere altro, senza evoluzione né redenzione, senza nemmeno coscienza del male, destini irrevocabili
Un epos negativo, di morte.
Dei siciliani, nel canone de “Il padrino”. Ma anche degli irlandesi, amici per
la pelle che si fanno la pelle. Che Scorsese fa rivivere nobilmente, grazie
alle impersonificazioni di De Niro, Joe Pesci, sparring partner nella prima parte, l’aggiustatore delle mafie, e Al
Pacino, Jimmy Hoffa, che gigioneggia nella seconda parte.
C’è solo violenza in
certe culture, inavvertita per quanto bestiale. Scorsese non si sottrae al cliché, dell’italiano, del meridionale,
del cattolico, ma come affascinato. Più un “Guerra e pace” forse, di un
pacifista che per millecinquecento pagine parla di guerre.
Singolare il ringiovanimento e
l’invecchiamento dei tre co-protagonisti, con tecniche digitali invece che con
sovraccarichi di trucco. Si ha la sensazione che siano persone vere, anche
perché spesso agite in figura intera, quindi anche più o meno agili, e non
mascheroni.
Martin Scorsese, The Irishman
Nessun commento:
Posta un commento