È il 1908, è l’esordio nella
narativa di di Palazzeschi, ventitreenne ma già riconosciuto poeta, con due
raccolte, “I cavalli bianchi” (1905) e “Lanterna” (1907). Un racconto veloce,
disinvolto, anche se purtroppo pieno di toscanismi. E di affettazioni
fiorentine: tutti signori di campagna,
in villa, con servitù. Ma tranquillo romanzo gay, seppure asessuato.
Alla storia d’amore che non
si dice(va) si accompagna un complesso edipico fortissimo. Valentino è un tipo
bizzarro: appicca il fuoco a un pagliaio, non fa pulire la casa polverosa, non
mangia, non parla con nessuno, nemmeno con le serve. E si saprà all’ultimo che
non invia le lettere che scrive – anche se la procedura dell’invio quotidiano
prende buona parte delle lettere stesse: la buca è all’osteria e Valentino
temendo il chiacchiericcio degli avventori finirà per recarvisi a notte fonda,
malgrado il freddo. Su una sola cosa è diretto: “Amo! Amo! Amo perdutamente
ora!”. Diretto a Johnny e alla madre.
Ma alla madre, a un certo
punto, di più: “Ella vive, vive per me, per me soltanto”, eccetera. La madre di
Valentino, che non ha avuto padre, bellissima e liberissima, si è uccisa con un
colpo di pistola a 29 anni, quando Valentino ne aveva 14. Avendolo concepito a 14. Nella villa che
Valentino ora, dopo quindici anni, ha riaperto. Ora ne ha 29 lui, e organizza
una festa con tutti i nobili vicini, come fece la mamma per ambientarvi il
suicidio.
Un racconto, non un romanzo,
anche se psicologicamente complesso, e anzi contorto. Palazzeschi declina, con
l’omosesssualità, anche quello che sarà l’“atto gratuito” di Gide – non c’è
spessore psicologico nel suicidio dela madre, e in fondo neppure nelle
decisioni di Valentino. E abbozza, in una “Parte seconda”, una satira brillante
e molto contemporanea dei modi e i cliché
giornalistici, su come le “notizie” vengono riferite, un vero saggio di analisi
dell’informazione.
Palazzeschi ci teneva, pur
rubricandolo “romanzo liberty”, tra Wilde evidentemente e D’Annunzio. Lo
riprenderà come “Allegoria di novembre”.
Ripubblicato qui con una nota
molto gradevole, “Il romanzo decadente di A.P.”, di Luciano De Maria, lo
studioso che ha curato la memoria critica di Palazzeschi. Salvo per un punto,
dove dismette la seconda parte quasi fosse un seguito della narrazione: “La
«disperazione» e il «turbamento» della prima parte vengono smantellati,
sbriciolati nella seconda. Il soffio potente dell’irrisione, della parodia,
della dissacrazione investe retrospettivamente la prima parte”. Anche il
migliore studioso può “saltare” dei pezzi?
Aldo Palazzeschi, : riflessi, SE, pp.140 € 9,30
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