mercoledì 6 novembre 2019

L’amore gay e della mamma, Palazzeschi al debutto

Dalla villa di famiglia in Toscana dove si è ritirato dal palazzo di Roma, Valentino scrive ogni giorno all’amato Johnny, giovane inglese italianato, che da Roma invece se ne è andato a Venezia. Ribadendogli il suo amore immutato. E quello per la sua propria madre.
È il 1908, è l’esordio nella narativa di di Palazzeschi, ventitreenne ma già riconosciuto poeta, con due raccolte, “I cavalli bianchi” (1905) e “Lanterna” (1907). Un racconto veloce, disinvolto, anche se purtroppo pieno di toscanismi. E di affettazioni fiorentine:  tutti signori di campagna, in villa, con servitù. Ma tranquillo romanzo gay, seppure asessuato.
Alla storia d’amore che non si dice(va) si accompagna un complesso edipico fortissimo. Valentino è un tipo bizzarro: appicca il fuoco a un pagliaio, non fa pulire la casa polverosa, non mangia, non parla con nessuno, nemmeno con le serve. E si saprà all’ultimo che non invia le lettere che scrive – anche se la procedura dell’invio quotidiano prende buona parte delle lettere stesse: la buca è all’osteria e Valentino temendo il chiacchiericcio degli avventori finirà per recarvisi a notte fonda, malgrado il freddo. Su una sola cosa è diretto: “Amo! Amo! Amo perdutamente ora!”. Diretto a Johnny e alla madre.
Ma alla madre, a un certo punto, di più: “Ella vive, vive per me, per me soltanto”, eccetera. La madre di Valentino, che non ha avuto padre, bellissima e liberissima, si è uccisa con un colpo di pistola a 29 anni, quando Valentino ne aveva 14. Avendolo concepito a 14. Nella villa che Valentino ora, dopo quindici anni, ha riaperto. Ora ne ha 29 lui, e organizza una festa con tutti i nobili vicini, come fece la mamma per ambientarvi il suicidio.
Un racconto, non un romanzo, anche se psicologicamente complesso, e anzi contorto. Palazzeschi declina, con l’omosesssualità, anche quello che sarà l’“atto gratuito” di Gide – non c’è spessore psicologico nel suicidio dela madre, e in fondo neppure nelle decisioni di Valentino. E abbozza, in una “Parte seconda”, una satira brillante e molto contemporanea dei modi e i cliché giornalistici, su come le “notizie” vengono riferite, un vero saggio di analisi dell’informazione.
Palazzeschi ci teneva, pur rubricandolo “romanzo liberty”, tra Wilde evidentemente e D’Annunzio. Lo riprenderà come “Allegoria di novembre”.
Ripubblicato qui con una nota molto gradevole, “Il romanzo decadente di A.P.”, di Luciano De Maria, lo studioso che ha curato la memoria critica di Palazzeschi. Salvo per un punto, dove dismette la seconda parte quasi fosse un seguito della narrazione: “La «disperazione» e il «turbamento» della prima parte vengono smantellati, sbriciolati nella seconda. Il soffio potente dell’irrisione, della parodia, della dissacrazione investe retrospettivamente la prima parte”. Anche il migliore studioso può “saltare” dei pezzi? 
Aldo Palazzeschi, : riflessi, SE, pp.140 € 9,30

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