Franceschino, che trascorrendo vita
precaria emergeva da terre umide e buie, assaporava il tepore delle pietre e
l’aroma degli amori impregnati nei muri e nei cespi di rose, e ne ebbe il cuore
traboccante.
Fu questo stesso eccesso a prendere lei. Spiegò a lui, per quel
poco che parlava invece di colmarlo con lo sguardo, che qualcosa d’impossibile
incombeva. Che lui non considerava, come se sapesse. E più spesso lei lo
evitava. Prendeva strada attraverso i giardini, o su per la collina, a ore
antelucane o imprevedibili, e forse per corridoi oscuri dentro il palazzo dei
carabinieri, gallerie che portavano all’antica accademia, camminamenti nella
prigione. Ma lui paziente aspettava all’angolo della porta Settimiana, e ne era
premiato.
Era un gioco di destini, la cui attesa si
riempiva, a ore, a giorni, di sbocchi di vitalità. Anche dopo, per un tempo,
che egli alla porta ebbe incontrato invece i suoi cacciatori sotto
irriconoscibili sembianze, che lo avevano perduto e non se lo fecero scappare,
trasportandolo su e giù per celle senza porte e senza suoni in ceppi. Fino a
quando non ne perderà la memoria. Benché si viva, sembra, anche in carcere,
ogni sensazione essendo un ricordo.
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