“Città, imprese e modelli
produttivi, l’Italia che cambia” è il sottotitolo. L’Italia è il paese in
Europa, e a questo riguardo nel mondo, che più è cambiato – forse in subordine
o alla pari con la Germania. Eccetto che per alcuni pregiudizi o resistenze
conservatrici, specie sulla termovalorizzazione dei rifiuti, che pure consente
di ricavarne ottimi beni: concimi naturali e potenza elettrica. L’economia del
recupero o riciclo (restauro, riuso, ricostruzione) nasce con “I limiti allo
sviluppo”, che il club di Roma elaborò ne 1970, e la crisi petrolifera tre anni
dopo in qualche misura impose. Di pari passo con le politiche anti-inquinamento
o ambientali, che la presidenza Nixon aveva varato in America nel 1969.
Molti passi sono stati da
allora fatti, e sopratutto molte tecniche nuove elaborate in questa ottica. E
oggi l’economia circolare è una parte già consistente della struttura
produttiva, e quella che cresce più rapidamente – insieme con le ultime
applicazioni dell’elettronica, l’intelligenza artificiale. Si è già al
riutilizzo delle batterie esauste da auto elettrica.
Di fatto nessun riciclo è
impossibile. Eccetto che per le scorie delle centrali nucleari. E questo è
l’esito di un’utopia – o di una politica industriale surettizia – affrettata
negli anni 1970. Quando i “limiti allo sviluppo” si imposero non per la
preservazione del pianeta ma per una previsione sbagliata di esaurimento
prossimo venturo delle fonti di energia fossili. Con esiti però anche qui
positivi: Exxon, allora potentissima compagnia petrolifera, la più grande al mondo,
e il gruppo che più capitalizzava nelle Borse, varò il programma meglio
finanziato e più spedito nella ricerca sulla trazione elettrica.
Start Magazine, Economia circolare, pp. 116 sip
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