Analisi – Induce la
depressione? Attraverso la reiterazione, anche per lunghi e lunghissimi
periodi, per molti a vita, della confessione. Che non è la confessione al
giudice o al prete, la scansione di un evento, quindi in superficie, ma uno
scavo, alla ricerca del fossile o del reperto che ci deve essere. Una forma di
autoflagellazione che induce colpevolezza o inadeguatezza più che risoluzione e
decisione - liberazione.
Il riesame di se stessi, prolungato,
ossessivo, con la scusa di dipanare matasse e grovigli, di trascuratezze,
rimozioni, colpe, è una forma subdola di confessione: non espelle – oggettivizza.
Non libera in realtà, condanna. Non con un giudizio una tantum, appellabile.
Anzi, senza giudizio. Se non la propria volontà, che però il procedimento vuole
sbriciolare e non corroborare. Da ognuno pretendendo che riconosca il male, con
infiniti artifici, senza distacco. Impegnando tutto se stesso. In un cammino
senza uscita. Una forma si direbbe “classica” di sadomasochismo – una trappola
da cui non ci si libera.
Una terapia che non risolve è essa
stessa una patologia, indotta – colpevole. Si registra, statisticamente, nei tumori,
le cure dei quali richiedono la convinzione del paziente. È l’esito di
un’aspettativa delusa.
La diffusione della depressione in contemporanea
con quella della psicoanalisi, volgare e no, può anche essere significativa, di
causa a effetto.
Suicidio - In antico la
colpa portava al suicidio. Poi, con metodo cristiano, al pentimento e alla
penitenza. Sant’Agostino naturalmente è contro. Ma
non senza ragioni. “Dov’è la forza di quest’uomo tanto vantato?”, si chiede di
Catone, “non è stato piuttosto per impazienza che per coraggio che questo
famoso Catone s’è data la morte, e per non aver potuto ammettere la vittoria di
Cesare?” E dei peripatetici, che dicono, “con ragione, che è il primo grido
della natura che l’uomo ami se stesso, e pertanto che abbia un’avversione
istintiva per la morte”, per poi soccombere ai mali uccidendosi, che dirne, “se
gli stessi credono alla verità come credono alla morte?”
Il
suicida di Borges è molto pieno di sé, che dice: “Lascio il nulla a nessuno”.
Wittgenstein,
dei cui quattro fratelli tre si suicidarono e uno, il primogenito molto amato,
pianista avviato, tornò dalla guerra senza un braccio, lo dice illecito: “Se è
lecito il suicidio, allora tutto è lecito. Se esiste qualcosa che non è lecito,
allora il suicidio non lo è”. Oppure no: “Oppure il suicidio in sé non è né
buono né cattivo”.
Il fatto è
oscuro per Wittgenstein in quanto “esso getta una luce sull’essenza dell’etica.
Poiché il suicidio è, per così dire, il peccato fondamentale. E quando lo si
interroga è come se si interrogasse il vapore di mercurio per capire l’essenza
dei vapori”. Sfugge.
Il suicidio è
problematico (per l’etica, il diritto, i rapporti umani), non è un “atto”
isolato. Lo è testualmente, ma la vita non è un fatto isolato.
“Nessuno è autorizzato a togliersi la
vita, dato che non è sua”, è riflessione di Joseph Roth, “Autodafé dello
spirito”, 87. Il poeta Evtushenko è più radicale: “Sappiate che esistono solo
omicidi.\ Al mondo nessuno si è mai suicidato”. Ma proprio i legami tra legami
tra narcisismo e suicidio indaga una delle poche analisi scientifiche in
materia dopo Durkheim, quella di Paul Mathis, “I percorsi del suicidio”, 1979:
Mathis, neurologo analista, École Freudienne di Parigi, indaga la diffusione
del suicidio tra gli scrittori.
I casi sono molti, anche non elencati da
Mathis.
Salgari ci provò dapprima eroicamente,
buttandosi su una spada, ma non l’aveva ben fissata. Poi con un brutale harakiri,
in un boschetto isolato – ma il rasoio era affilatissimo. Lasciando ai
figli diritti d’autore che lui non aveva
avuto in vita, e tanto rancore.
Kawabata si uccise da vecchio, e semplicemente col gas, ma dopo un
sogno ininterrotto di Mishima, suo protetto e amico, che si tagliava il ventre
con la spada: lo stesso incubo per due-trecento notti di seguito. Mishima aveva
scelto di eviscerarsi, a soli 45 anni, in diretta tv, nell’ufficio di un
generale, dopo l’esaltazione al balcone del Giappone e dell’imperatore, e
l’esecrazione dei trattati di pace e della costituzione democratica.
“Scriverlo mi ha uccisa”, scrisse del
suo quarto dramma, “Sinfonia per voce sola”, Sarah Kane, nel biglietto con cui
spediva al suo agente la sua quinta opera, “4.48 Psychosis”, per poi uccidersi
– si impiccò con i lacci delle scarpe in un bagno del King’s Hospital a Londra,
dove si era ricoverata per aver reso troppi farmaci.
Lo
stoico lo auspica. Baudelaire dirà lo stoicismo una religione con un solo
sacramento, il suicidio. Fra gli stoici suicidi merita speciale menzione
Seneca, che filosofò l’etica austera ma accumulò ricchezze in Britannia col
prestito a usura - a tassi che spinsero i Britanni della regina Boadicea,
secondo Dione Cassio, a ribellarsi.
Quello pubblico,
di Catone e della libertà romana, o
della elefantessa in cattività allo zoo di Roma, è poco artistico, rileva
Corrado Alvaro (“Il mammismo”, in “Il nostro tempo la speranza”): “Il dramma di Catone che si
uccide per la libertà perduta è il solo suicidio che percuota di reverenza
l’antichità e i teologi stessi e Dante.
Ma suscitò sempre mediocri opere d’arte, mediocri tragedie, e solo qualche buon elogio accademico. È la
vita che suscita il dramma, è la sopravvivenza agli orrori, ai lutti e alle
catastrofi. Anche al colmo della disperazione, il dramma antico non conosce il
suicidio, come non lo conoscono, in genere, le belve”.
Ovidio ha
l’empio che si sbrana “con morsi spietati” - e “così lo sciagurato le sue
membra smagrendo nutriva”. Ma fino a un certo punto evidentemente.
È l’autofagia, come
modalità di suicidio, suggestiva e non reale? Non solo Erisittone, ogni uomo
morde incontinente se stesso.
Il primo in chiave eugenetica, di una
propria decisione autonoma, senza costrizione o motivo specifico, è quello di
Paul Lafargue, l’auore di “Elogio dell’ozio”. In una con la moglie Laura Marx,
figlia di Karl, la bella della famiglia. Nella notte dal 25 al 26 novembre
1911, lui di 69 anni lei di 66, iniettandosi l’acido cianidrico, nel loro
villino di Draveil, vicino Parigi. Con queste ultime volontà di Paul: “Sano di
corpo e di spirito, mi uccido prima che l’impietosa vecchiaia che mi leva a uno
a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza e mi spoglia delle forze fisiche e intellettuali non
paralizzi la mia energia, non frantumi la mia volontà e non faccia di me un
onere per me e gli altri”.
Tempo – Si sottrae e
non si aggiunge. È una variabile costante, che si disperde – si accumula, ma
nella dispersione. La mobilità lo consuma – spesso lo annienta. Il lavoro ben
fatto pure. O l’innovazione, quella veloce odierna: incredibile il tempo che
“si perde” con la tecnologia digitale, per le continue innovazioni, le
sospensioni del servizio, le riparazioni (le più semplici richiedono conoscenze
specifiche). È come se il tempo non esistesse per il digitale, sia quando sveltamente
come è nella sua natura funziona sia quando è in riparazione – è come se si
prospettasse agenti piatti: utenti, manovratori, ricettori, soggetti umani a
due dimensioni.
Tristezza – Michelet la
impersona nel mare: “Le nobili e alte tristezze, che sono le migliori
impressioni del mare” (“Il mare”, III). Una sorta di elemento liquido, si
direbbe con terminologia corrente, amniotico, energetico: “C’è tristezza e
tristezza, quella delle donne, quella dei forti, quella delle anime troppo
sensibili che piangono su se stesse, e quella dei cuori disinteressati che per
sé accettano la sorte e benedicono sempre la natura, ma sentono i mali del
mondo , e attingono nella tristezza stessa le forze per agire o creare”. Una
condizione o stato d’animo” che si può nominare la malinconia eroica!”
zeulig@antiit.eu
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