Più andava avanti con gli anni, più libri comprava.
Illudendosi forse di avere più tempo per leggerli, tempo libero dalle
incombenze, dalla ananke. Gli
scaffali riempiendo anche a doppia fila, col problema di rendere i libri stessi
irreperibili, se non con spreco di ore e giorni, in ricerche anche vane.
Accumulando cioè libri non letti, il tempo è fisso, non è elastico.
Si comprano libri anche per vizio, ci sarà una bibliopatia,
al di là della bibliomania, come c’è una ludopatia, una dipendenza fra le
tante. Ma il piacere è forte con cognizione di causa, sapendo cioè che è uno
spreco. Sapendo che, morto il de cujuus,
è già avvenuto col padre e gli zii, gli eredi non sanno che farsene dei libri:
sono ingombranti e valgono poco, se ne liberano perfino a un costo. È un
investimento non a futura memoria, come può essere una casa, un quadro
d’autore, un deposito titoli, ma a proprio piacere. A un dialogo compiacente –
certo, muto. Una (piccola) offerta sacrificale, a chi tanto ha faticato e bene
prodotto, l’autore è un benefattore dell’umanità. Un prolungamento della
vivenza, il certificato che le Poste richiedevano per pagare la pensione ai
nonni. Non della memoria ma del sentirsi vivi – a un certo puto acquistare è
inutile, lui stesso lo sapeva benissimo, ma è un piacere.
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