mercoledì 27 novembre 2019

Ritorno, commosso, alla terra - alle origini

Un film fuori dall’ordinario, di ritorno alle radici. In un paesino abbandonato dell’Aspromonte, Africo, senza strada, senza luce, senza medico, alla vigilia dell’alluvione del 1951, quella dell’“addizionale pro Calabria”, che lo cancellerà. In un quadro ancora fanoniano: il titolo, “La terra degli ultimi”, l’ambientazione, la “politica”, sono dei “dannati della terra” - nelle forme della inchiesta di Zanotti Bianco e Manlio Rossi Doria, probabilmente, e di “Gente in Aspromonte”, i racconti eponimi di Alvaro. Ma di richiamo universale, sotto la coltre dell’isolamento, della povertà, della sporcizia. Alle radici di quella che sarà l’emigrazione di massa, quindi con un occhio alle polemiche di oggi quotidiane. Ma alle radici anche di ogni uomo: la vita semplice, il senso istintivo di comunanza e solidarietà, il destino.
Una storia non di riscatto ma di fatalità. Sentimentale, giocata sul poetico: filo conduttore sono le immagini, i sogni e i segni del Poeta – un Marcello Fonte che un’altra volta centra al cento per cento il personaggio. Corroborata dal commento musicale di Piovani. E dal dialetto non addomesticato  - recuperando il rigore filologico dei film di mafia di Coppola, e da ultimo del capolavoro di Jonas Carpignano, sulla comunità rom di Gioia Tauro. Sentita anche come ritorno alle origini, dal regista, dallo stesso produttore - Fulvio Lucisano si è voluto produrre in un cameo all’ultima scena, del ragazzino che sbarca in vecchiaia sulle rovine in elicottero, e trova a colpo sicuro il quaderno del “Poeta”, la memoria - in singolare sintonia con l’ultimo Scalfari, di “Grand Hotel Scalfari”, che ritorna alla Calabria “adesso da vecchio, nella stagione della poesia, dell’«ora blu»”, della malinconia.. 
È il Poeta che celebra i sogni, quindi l’avventura. Ma sconsolato constata pure che senza “la terra” – la memoria, la comunanza - non siamo niente.
Un film di immagini sempre pregne, benché semplici. Alla Pupi Avati, in ambiente agreste – “Nuovo cinema Paradiso” è stato evocato ma questa favola non è ottimista, è della rassegnazione, storicizzata. Con difetti purtroppo di sceneggiatura, o montaggio. Monocromo, monocorde. Grigio e dolente, ininterrottamente. Il sole non sorge, il sorriso non scappa. La natura che s’immagina aperta e varia, variopinta, è invece chiusa e cupa. La maestrina volontaria di Como, l’umanità altra che avrebbe dovuto agire da dialettica antitesi, è ridotta a poche scene, inutile – perfino maltrattata: mendica da ultimo un bacio distratto da un contadino in cenci, da “stordita”, il personaggio che Valeria Bruni Tedeschi si è ormai ridotta a impersonare. Il contrasto con “la Marina”, lo Stato, il nuovo, il diverso, è ridotto a poche scene di genere, “il Prefetto”, “il Maresciallo”.
Mimmo Calopresti, Aspromonte. La terra degli ultimi

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