sabato 2 novembre 2019

Un vuoto pieno d’amore

A prezzo d’affezione, il “Corriere della sera” avvia in edicola la celebrazione dei dieci anni della morte, l’1 novembre 2009, di Alda Merini, la poetessa che Milano ha eretto a suo nume, con tomba nel Famedio del Cimitero Monumentale, una casa museo, e l’intitolazione di un ponte sui Navigli. Con una introduzione nuova, di Aldo Nove, il titolo è della raccolta curata nel 1991 da Maria Corti per Einaudi, che sancì il ritorno di Alda sulla scena letteraria milanese, dopo una serie di internamenti manicomiali nella stessa Milano, a partire dal 1965. E la pausa tarentina, con  matrimonio d’amore.
Nel 1984, a 53 anni, Alda Merini si era autoesiliata a Taranto per sposare Michele Pierri, 85 anni. Culminando una storia d’amore di quattro anni: un rapporto telefonico, quotidiano, per il comune vizio della poesia. Non un matrimonio di folli. Pierri, napoletano, nipote e allievo del medico santo Giuseppe Moscati, era a Taranto un personaggio: carcerato per antifascismo, poeta religioso apprezzato (da Ungaretti, Pasolini, Betocchi, Caproni, la stessa Corti). chirurgo innovativo e primario dell’ospedale. Nel 1987 Alda Merini era tornata a Milano, lasciando Pierri malato terminale (morirà l’anno dopo). Nella sua città aveva però avuto altri due anni di difficoltà, vivendo quasi da barbona.
Esula dalla raccolta ogni riferimento della poesia di Ada Merini alla speciale condizione mentale, giusto l’imperativo con cui Maria Corti la apriva nel 1991: “Nell’attule incombente cultura dello spettacolo è necessario resistere alla tentazione di dilatare leggende che fioriscono sulla follia, il disordine mentale, l’orrore quotidiano come miti dell’immaginario”. Corti preferiva dire il “fenomeno Merini” di “poesia istintiva ed epifanica” – “ha preso l’abitudine di scrivere di getto”. Ma sarà necessario, e sicuramente significativo, esplorare anche nel caso di Alda Merini il bisogno e la capacità spontanea di poetare di certi “disordini” mentali, di una speciale capacità di linguaggio, di parole e immagini e ritmi evocativi. La stessa Corti non vi si può sottrarre: “La Merini scrive in momenti di una sua speciale lucidità”. Anche se riduce la follia a condizione manicomiale, e il suo effetto poetico alle immagini provenienti “spesso da luoghi frequentati durante la follia”, al rifiuto e al dolore di quella condizione.   
Non è il solo aspetto del “fenomeno Merini” che manca. Non c’è ancora un riesame critico, uno qualsiasi, della sua vasta e varia opera. Si continua a leggerla nel segno della curiosità, benché diffusa e costante: un approccio sistematico ancora làtita. Alla riscoperta, dopo l’internamento e al ritorno da Taranto, c’è stato un forte plauso ma non un impegno critico. Maria Corti rimandava nel 1991 ad altro ambito “un saggio critico o un esame dell’eccezionale sistema metaforico della Merini”. Ancora si attende.
Nella raccolta è incluso anche il breve poema “La Terra santa”, estrapolato da una raccolta ben più densa con lo stesso titolo. Che rifletteva, insieme col poema propriamente detto, l’inferno del manicomio. L’obbrobrio del corpo, martoriato dagli elettroshock, dalla nudità, dalle manipolazioni dei custodi, degli infermieri: “Sono regina ma fuori dal mondo\ potrei essere morta”.   
La raccolta è invece proteiforme e tendenzialmente partecipe, se non entusiasta, proiettata all’esterno. Di storie per lo più, per lo più personali. Affettuosa, maliziosa, rispettosa, e non. Ci sono Manganelli, nume tutelare come Spagnoletti, ma più presente. Quasimodo, di cui Alda è stata un tempo collaboratrice e, lei lascia capire, amante, fervida, riconoscente. Emily Dickinson, per converso, “patentata quacquera”. E sul coté religioso, sempre attivo in lei, padre Turoldo, distante. E Padre Camillo” (da Piaz), anch’egli bellissimo uomo, come Turoldo.
Al contrario del titolo, Merini si direbbe – si voleva – piena d’amore. Per Manganelli, qui, sopra tutti – tutti i 36 amanti che vanterà. Nel 1947, a sedici anni, “snella e con gli occhi lucidi”, Alda “incontrò le prime ombre nella sua mente”, ricorda Maria Corti, “e venne internata per un mesetto a villa Turros”. In quei mesi la giovanissima Alda era ospite, condotta da Manganelli, nel pied-à-terre della stessa Corti. Per una visita? No, da tempo il sabato pomeriggio nella mansarda di Corti, o in pensioni compiacenti, Manganelli con la quindici-sedicenne ci faceva l’amore. Lei non se ne farà e non gliene farà una colpa – Lietta Manganelli, la figlia che Giorgio già aveva, la ricorda con affetto. Ninfa resterà a lungo – ancora nel 1954, di Alda a 23 anni Pasolini farà lelogio come della “ragazzetta milanese”. 
“Manganelli più di ogni altro l’aiutava a raggiungere coscienza di sé”, ricorda Maria Corti, e “la portò in esame da Fornari e da Musatti”, i due massimi psicoterapeuti milanesi dell’epoca – lei stessa, Maria Corti, portò Alda da Clivio (Cesare? Allora all’Ospedale Maggiore, clinica Malattie nervose). Oggi si manderebbero da Fornari e da Musatti, e da Clivio, Manganelli e la stessa Corti - se non direttamente al gabbio. La poetessa adulta potrà dire in “Alla salute”, la raccolta di versi e pensieri: “Alda Merini è stata in manicomio ma non è una pazza”.

Vuoto d’amore è quanto può lamentare una poetessa prodigio, premiata da Mussolini a dieci anni, riconosciuta dall’establishment milanese a quindici. E da esso spupazzata. Che finiva regolarmente al Paolo Pini, il manicomio, benché non avesse alcuna sindrome demenziale: così, perché era particolare – oggi, racconta il fratello al “Corriere della sera”, le sarebbe bastata una seduta da uno psicologo, al più una pasticca. 
Alda Merini, Vuoto d’amore, Corriere della sera, pp. 136 € 6,90

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