C’è un ritratto infine del
padre, Pietro. Che finì per dirigere il Casino di Sanremo, aperto da Mussolini,
dopo aver perso tutto al gioco, dopo Fiume con D’Annunzio, e dopo un paio
d’anni al fronte, medaglia di bronzo nella Grande Guerra – da cui il fratello
maggiore, medaglia d’argento, uscì tanto menomato da arrivare presto al
suicidio. C’è l’amore nelle due facce: del tormentato, Eugenio con la mamma,
per le ribalderie del padre, e del tormentatore, di mogli e amanti. C’è la verità
infine del rapporto con Calvino, di amicizia intima negli anni del liceo e poi
negli ultimi anni dello scrittore, e di lontananza totale negli anni intermedi,
dopo che Scalfari nel 1946 votò monarchia al referendum. Anche a lungo dopo che
Calvino cominciò a scrivere per i giornali – si può testimoniare che Scalfari
cominciò a pensare a Calvino all’indomani del referendum sull’aborto, nel 1978,
quando il “Corriere della sera” aveva in prima Calvino, e “la Repubblica”
Arbasino.
Poco dice anche, sotto il molto,
dell’incostanza amorosa – non c’è Giorgia Moll, non ci sono altre meno note
giovani donne. E il poco senza saggezza, per l’uzzolo di dirsi libertino. La
bigamia, in età giovane, può essere dolorosa, per i partner coinvolti, e per i
figli. Una inavvertenza più triste per uno il cui personale ricordo dei primi
anni, ritornante in tutte le memorie, è di un fanciullo-ragazzo che “teneva
assieme” i genitori, supplendo al “libertinaggio” del padre. Lo stesso in
politica. Oggi va di moda la spensieratezza, ma al suo livello, col credito
acquisito con i suoi giornali, può fare danni, specie con l’antipartitismo, mascherato
da ultimo da filocomunismo.
Notevoli i ritratti: di Calvino
soprattutto, Pannunzio, Arrigo Benedetti, Mattioli, Eco (di cui riporta il
dialogo in video di fine 2014 su “Numero Zero”, l’ultimo romanzo di Eco, che
stringeva il suo cannnocchiale dei meccanismi della comunicazione sul
giornalismo, non lusinghiero), Giulio De Benedetti. Con la storia
dell’“Espresso” e quella di “Repubblica”.
Omissioni
Notevole pure l’assenza, in questa carrellata, di Carli, il governatore della Banca d’Italia del cui pensiero Scalfari fu l’interprete e il divulgatore per lungo tempo, come “Bancor”. Uno dei primi ricordi di “Repubblica” fu quando, agli albori del compromesso storico, Eugenio dileggiava il Pci, che non aveva ancora “scoperto il tasso di sconto” – governatore in Banca d’Italia era Baffi, ma Carli era nell’ombra (e Gaetano Stammati, compagno di loggia, altro assente, al Tesoro, con Luigi Bisignani, attivissimo giovane suo portavoce). Non c’è “Razza padrona”, la guerra a Cefis che consacrò Scalfari nazionalmente – forse per non dover parlare di Peppino Turani. Né il “compromesso storico”, da lui patrocinato, ancora oggi, per mero opportunismo, che ha dissolto la politica e imbarbarito l’Italia – proprio attraverso il controllo dei media.
Omissioni
Notevole pure l’assenza, in questa carrellata, di Carli, il governatore della Banca d’Italia del cui pensiero Scalfari fu l’interprete e il divulgatore per lungo tempo, come “Bancor”. Uno dei primi ricordi di “Repubblica” fu quando, agli albori del compromesso storico, Eugenio dileggiava il Pci, che non aveva ancora “scoperto il tasso di sconto” – governatore in Banca d’Italia era Baffi, ma Carli era nell’ombra (e Gaetano Stammati, compagno di loggia, altro assente, al Tesoro, con Luigi Bisignani, attivissimo giovane suo portavoce). Non c’è “Razza padrona”, la guerra a Cefis che consacrò Scalfari nazionalmente – forse per non dover parlare di Peppino Turani. Né il “compromesso storico”, da lui patrocinato, ancora oggi, per mero opportunismo, che ha dissolto la politica e imbarbarito l’Italia – proprio attraverso il controllo dei media.
Uno, assicura, che si è
sempre divertito: “Io non conosco l’angoscia, perché non conosco la noia” –
anche ora, da ultimo, “non vuole” essere malinconico. E per questo forse resilient, contro magagne e catastrofi. Perdere “la Repubblica”,
l’opera della vita, e non perdersi. Riciclandosi anzi, come filosofo, come
poeta. Nonché compagno di merende del cardinale Martini e del papa, chi
l’avrebbe detto?, poterlo fare benché non ci creda. La corazza è una fortuna e
la caratteristica del buon imprenditore, quello di successo, che è sempre imprenditore
di se stesso. Eugenio fin da bambino, stratega delle riappacificazioni
domestiche, e poi a scuola, benché lo chiamassero “Napoli”, perché figlio di un
calabrese.
Pagine memorabili ha su Fiume.
Su Sanremo anni 1930, pullulante di personaggi, non storici ma che fanno la
storia: i genitori di Calvino, De Santis, il gentiluomo napoletano che “creò”
Sanremo, il dimenticato Pastonchi, un letterato vivacissimo animatore culturale,
Marco Spaini, “teosofo e filibustiere”, consigliere filosofico di Adriano
Olivetti; l’iniziazione alla massoneria a Vibo; il “caro amico” Calasso,
direttore di Adelphi, che lo rifiuta come autore quando lascia “la Repubblica”
- dopo avergli fatto riscrivere “Io sono Dio” (l’editore di Scalfari sarà
Berlusconi…).
Ipocrita, il giusto. “Provo,
ancora oggi molta tenerezza per le donne che hanno sofferto a causa del loro
uomo, ma, in fondo al cuore, so che l’infelicità di un’anima nasce da se
stessa”. Con l’elogio del radical chic.
L’avocazione della discendenza calabrese, svogliata e con poche nozioni – fa
crescere a Vibo agrumi e bergamotto. Celebra i suoi grandi collaboratori a
“Repubblica”, con Bernardo Valli in cima alla graduatoria ideale.
Anche sincero, un po’. Scalfari
a 95 anni recita di meno, benché sempre gigione. Scalfari non è un istrione, è
anzi spesso insicuro, e appare timido, riflessivo, ma nel suo privato-personale
è teatrale, si mette volentieri in scena. Come ora col papa argentino, e alla
tv, che gli piace. E veritiero, un po’: “Sono un mercuriale che sogna di essere
saturnino”. Un calcolatore. Anche appassionato, ma un poco: “Saturno è la
melanconia, Mercurio è la sintonia con il mondo. E io sono stato un mediatore
di scambi, di commerci, di conflitti e un accompagnatore, spesso di interessi,
talvolta anche di sentimenti e di anime”. Con l’amore per l’azzardo, non solo al
tavolo da gioco. E per le divise… - una civetteria, a Eugenio piace civettare. Oggi
poeta, dopo essere stato filosofo. E dopo avere scritto: “Non ho mai composto
versi e non credo che mai ne scriverò”.
Certo, non si può dire tutto
in un libro. Le mancanze testimoniano delle notevoli plurime esperienze che
Scalfari ha vissuto. Ma qualcuna sa di omissione. Non menziona Pirani, fra i
tanti di “Repubblica” che ricorda con affetto, di Pansa fa giusto un
riferimento. Niente, oltre che di Carli, dice pure della “difficile amicizia”
con Carlo De Benedetti, cui ha dovuto cedere “la Repubblica”, e sarebbe stato
il ricordo più interessante, come pettegolezzo e come storia economica e
dell’editoria giornalistica. Per esempio come De Benedetti diventò il padrone
del suo giornale. Che non era un editore e non ha saputo fare l’editore – forse
non è nemmeno un imprenditore, uno che ci sa fare con gli uomini e con i
mercati, ma solo uomo di denari - se “la Repubblica” è ridotta a cercarsi un
compratore pietoso.
Esercizio in egotismo
Il memoir resta lo stesso sorprendente. Ha la vena di “La sera
andavamo in via Veneto”. E la gagliardia del creatore di due giornali che hanno
fatto epoca e ancora fanno testo – l’unica impresa editoriale duratura (insieme
con quella di Berlusconi…) dell’ormai lungo dopoguerra. Ci vuole forza per un
esercizio in egotismo di trecento pagine, quando uno Stendhal si è limitato a
una sessantina. Qui si arriva fino a Verdelli a “la Repubblica”, cioè a ieri. Del
resto, è il genere di moda, e Eugenio è sempre goloso. Ma sa raccontare. E Gnoli
e Merlo con lui. Con errori minori – oltre a quelli, fastidiosi, di stampa. Introducono
i container nel 1950. Prestano a Scalfari “lo swinging di Carnaby Street e dei
two-tone a scacchi, il bianco e nero dei Mods, e poi del minibus hippy di Peace
and Love” – a Scalfari, che è sempre stato provinciale, molto?
L’impressione che lascia è di
un Candido, per quanto avvertito. Da ultimo, quando parla di Montanelli – che
era, lui sì, un filibustiere. O della politica come “colpi di biliardo, il più
delle volte goffi o scontati, raramente magistrali”. Da adolescente eterno – e
molto “Napoli”, meridionale – tra ballo, biliardo e pokerino. Felice di
esserci, di essere vecchio. Senza la riga sulla fronte, per carità, o il sonno
difficile. Sempre rassicurandosi, anche da novantenne.
Da vegliardo incredulo,
libertino, gli piacerebbe quanto l’abate Galiani scriveva a madame d’Ėpinay il
21 settembre 1776, nella setimanale corrispondenza: “Se l’anima invecchia,
qualche credenza riappare”. A lui non è successo, malgrado la familiarità col
papa Bergoglio, e dunque non è vecchio. “L’incredulo fa molto di più”,
aggiungeva l’abate, l’incredulo inconsapevolmente legando al libertino: “È un
funambolo che fa i movimenti più incredibili per aria volteggiando intorno alla
corda. Riempie di spavento e stupore gli spettatori, e nessuno è tentato di
seguirlo o imitarlo”. O non gli piacerebbe?
Antonio Gnoli-Francesco
Merlo, Grand Hotel Scalfari,
Marsilio, pp. 303 € 18
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