Assunzione di netturbini per bando
pubblico a Trani. Si presentano 113 per 13 assunzioni. I primi nove sono
laureati, gli altri quattro diplomati. Sono tutti fra i 29 e i 39 anni: non riuscivano
a trovare un’occupazione.
L’oliva bianca, l’antica leukolea di Caso, l’isola del Dodecaneso,
si produce da sempre a Rossano in Calabria. Ma diventa una curiosità di mercato,
una rarità a caro prezzo, ora che viene anche nel viterbese. Eppure Rossano non
è un luogo remoto o abbandonato.
“Fui accolto come un meridionale”,
Scalfari ricorda del suo ingresso al liceo Cassini di Sanremo nel 1938, dove
sarà compagno di classe di Italo Calvino fino alla maturità nel 1943, “come un
calabrese che era nato a Civitavecchia e arrivava da Roma. In questa confusione
geografica qualcuno mi affibbiò il nomignolo «Napoli» che, in quella provincia
del mondo, riassumeva tutto il Sud. Altrove mi avrebbero dato del terrone. E all’inizio
tentarono pure di bullizzarmi. Come si dice oggi”.
È sempre corsa la voce che i servizi segreti
tramino al Sud con le mafie, da ultimo nel processo in corso mafia-Stato. In
un’intervista famosa col “Corriere della sera” in omaggio a Andreotti per i suoi
novan’tanni, il 9 gennaio 2009, alla domanda “I rapporti della sua corrente con
la mafia?”, Cossiga risponde, da esperto, quale si gloriava, dei servizi stessi;
“Tutti i partiti in Sicilia hanno avuto rapporti con la mafia, anche i
comunisti. E non sempre a fin di male: fu la mafia a consegnare allo Stato il
bandito Giuliano. Una stagione che si chiude solo quando la mafia decide la
linea stragista”.
È anche vero che i servizi vorrebbe che
tutto il mondo sia “segreto” – non c’è più vantone delle spie.
A Roma il parroco, bresciano, celebra
l’Immacolata, la Madonna della parrocchia, con la processione - con banda. E
con i fuochi d’artificio – molti, molto rumorosi e colorati. L’ha instaurata,
la processione non usava, e in pochi anni l’ha eletta a tradizione. In
controtendenza con i vescovi del Sud, che in vece le processioni vorrebbero proibire,
e spesso lo fanno.
Si dirà che il parroco di Roma non ha problemi
di mafia. Chissà. Sicuramente non considera le processioni un rito pagano. Solo
il Sud si rinnega.
Il silenzio del
Sud
Il
Sud è come inanimato. Non c’è il Sud. Se non per le mafie, che ci sono ma in
larga parte sovrimposte. Comunque non totalizzati: non è vero e non è
possibile. Altro il Sud non esprime, di altro non si occupa. Luogo obbligato di
approdo dell’immigrazione di massa, gente che ambisce ale A lpi, al Reno, alla
Senna, al Baltico, da un trentennio vive tragedie inconcepibili, di naufragi, e
di difficili accoglienze. Ma non se ne occupa: i suoi scrittori non ne scrivono,
i suoi registi non le rappresentano. Solo Gianni Amelio con “Lamerica”, ma sono
già venticinque anni fa, e comunque con una storia non di morti, ma di fuga dalla
povertà e il terrore.
Lo
stesso di suo, delle cose sue. Ha produzioni di eccellenza, ma non sa o non
suole parlarne. Fa studi e ricerche anche non male, con non poche ottime
start-up, progetti remunerativi di idee più che di capitali, ma lo sanno in
pochi, e comunque non fanno “Sud”. Il Sud non ha un’opinione, Non di se stesso
e non di altri. Se non come accettazione passiva, o contestazione polemica –
oltre la polemica non sa esprimersi.
È
come afasico. Accetta ogni intervento, ogni modo d’essere, ogni opinione, anche
falsa, si adegua, si adagia, massa amorfa di consumo di idee e merci,
depilazioni e tatuaggi, barbe e teste rasate, spritz e apericene. Anche turismo
culturale, perché no. Ciò che si dice fatalismo, o passività. Con contorno di
araberie, islamismi eccetera, che sono cose di cui il Sud non ha idea. La sua è
solo debolezza. Costituzionale, i pediatri dicevano una volta. È disappetente,
e i tutori, anche non legali, purtroppo lo nutrono solo di storie di mafia, che
non sono nutrienti, e a volta infette.
Nostos, o della
stanzialità (di ritorno)
Le
tasse di Monti, col depauperamento delle case di famiglia, le processioni dei
Carabinieri e dei vescovi, lo sbancamento dei servizi locali da parte dello
Stato cannibale, non cancellano i legami con le origini. L’alternativa casa o
esilio, fisico o mentale, è la stessa che signore o suddito, padrone o schiavo:
ha una sola risposta. Succede fisicamente, con lo spostamento della persona.
Succede mentalmente, col cambiamento per esempio oggi vertiginoso degli
strumenti del fare, generazionale e intragenerazionale, che crea, apre, si può
dire a ogni passo nuovi territori di ansia, pericolo, paura, sfida, e
insoddisfazione, con l’alluvionale progressione della società della conoscenza,
che rapidamente ha portato allo stadio in cui uno si chiede: ma che ci sto a
fare, questa non è casa mia, non mi serve, mi distrugge.
Il
fenomeno è probabilmente accentuato nei periodi di incertezza o di crisi. Negli
scorsi giorni, in singolare simultaneità, due testimonianze sono uscite di
“ritorno” malgrado tutto. Di Eugenio Scalfari, che nel memoir intitolato “Grand Hotel Scalfari” si dichiara
inconsultamente calabrese. E di Fulvio Lucisano, il produttore cinematografico,
che ha voluto “Aspromonte. La terra degli ultimi”, il film di Mimmo Calopresti,
una straziante rappresentazione dello sradicamento, e vi ha voluto impersonare
l’ultima scena, del bambino ora vecchio di successo in qualche Canada o
Australia, che ritorna al paese abbandonato in elicottero e ci ritrova la
poesia. O è un fenomeno legato all’età, Scalfari essendo di 95 anni e Lucisano
di 91.
Ricorda
Scalfari, alla pagina 120: “La Calabria è una parte di me alla quale ho dato
spazio, e alla quale ripenso adesso da vecchio, nella stagione della poesia,
dell’«ora blu»”. Era il posto del padre, figura che ora Scalfari, in vecchiaia,
rivaluta, doverlo rimosso.
Il
forte senso delle origini, per la Calabria di Alvaro e ora di Scalfari, che mai
ci furono, o quasi mai, e ci si trovarono male, è un complesso, un colpa. Come
se l’aver seguito il proprio impulso, legittimo e costruttivo, non polemico o
ostile, fosse una colpa. Non una mancanza, un abbandono colpevole.
“Esistono alcuni scrittori o, meglio, alcuni
uomini che non hanno mai viaggiato, ma ai quali il paesaggio della città natia,
pur nella sua esiguità, ha dato il senso di ogni lontananza, viaggio e
distacco”, Mario Soldati, “Viaggi di letterati” (in “Un viaggio a Lourdes”).
C’è anche questa componente, di un arricchimento che tangenzialmente tocca il
luogo natio, il nome o la fantasia del luogo.
Lo
stesso per chi ha viaggiato e ritorna. Il ritorno è pur sempre un viaggio, un viaggio
di ritorno – fisico o mentale. Ed è anch’esso una divagazione, un’odissea. Anzi,
il viaggio s’intesse nel ritorno: il viaggio s’intesse con la nostalgia, e la
riscoperta – la scoperta del già noto, in forma più o meno uguale, purché non
stravolta.
Il
ritorno è come il viaggio in uscita – “è lo stesso entusiasmo con cui abbraccio
una bella donna”, dice Soldati: “È il piacere dell’evasione, della
contraddizione. Il piacere profondo e vitale di cambiare, di espandersi oltre
una famiglia, una classe, un paese, una razza”. Che c’è se c’è attaccamento:
“Se uno non è attaccato ad una famiglia, classe, paese, razza, neanche godrà ad
uscirne”.
Il
ritorno rientra anche nella scoperta negli Stati Uniti delle “Radici”, vecchia
ormai di mezzo secolo, a partire dal successo editoriale del romanzo così
titolato di Haley, afroamericano, che le origini risaliva fino al villaggio
tribale in Gambia da dove il “primo schiavo” della famiglia era partito. Un
fenomeno consolidato, al punto da costituire un richiamo turistico di massa, e
un mercato. Il terminale di Ellis Island è diventato un centro di documentazione
visitatissimo, e la meta di vari eventi di pubblico a fondo culturale. Vari centri
negli Stati Uniti si sono organizzati per attrarre il turismo genealogico, con centinaia
di migliaia di visitatori, a pagamenti l’uno ogni anno. In questa direzione si
sono indirizzate due docenti dell’università della Calabria a Cosenza, Sonia
Ferrari e Tiziana Nicotera, prospettando iniziative di richiamo e raccolte dati
che ricostituiscano una qualche forma di collegamento degli emigrati con la
terra d’origine.
Diverso
è il nostos, il ritorno fisico o
mentale, comunque una immedesimazione, anche nella diaspora continua, con le
origini. Una pratica, anche da remoto, vitale: una sorta di cordone ombelicale
che non si taglia e non si intende tagliare.
Il
nostos è un pendolo. La storia non è
fissa, non si ferma, ma per ciò stesso l’ancoraggio diventa indispensabile.
Ogni creatura si orienta a casa, il luogo di nascita, il punto di origine su
cui ogni specie fa risalire il suo essere – la mentalità, il linguaggio, le
abitudini, i gusti. È il senso dalla saudade
dei portoghesi, navigatori compulsivi, i trasmigratori per eccellenza. O
delle tribù aviarie, ittiche, che instancabili rifanno al cambio di stagione i
lunghi viaggi da una “casa” all’altra. Ognuno ha un suo posto. Senza un proprio
“posto”, “casa”, non c’è modo di esplorare terreni sconosciuti: senza i posti
di riferimento siamo perduti. Lo ricordano indelebile gli uccelli, le specie
più dotate di mobilità, nelle loro lunghissime, costanti, stagionali,
peregrinazioni. Lo fanno le lente tartarughe di mare, che per deporre le uova
ritrovano il posto dove sono nate. È un moto naturale, una sorta di pendolo:
ogni forma di espulsione, sia pure voluta, e anche entusiasta, mette in moto il
movimento opposto, il ritorno a casa, la ricerca di un’origine, dell’origine.
Per quanto angusto, povero, abbandonato, è il posto in cui le speranze si sono
schiuse.
Avviando
un trattato in cui apparentemente si parla d’altro, “L’età del capitalismo di
sorveglianza” - sul monopolismo dell’informazione che, dopo le prime promesse
libertarie, ora ci opprime, dei due o tre soggetti che presidiano la rete
internet - la sociologa di Harvard Shoshana Zuboff fa questa improvvisa
dichiarazione, a proposito della falsa familiarità dei social: “ È casa dove conosciamo e siamo conosciuti, amiamo e siamo
amati. Casa è padronanza, voce, relazione, e santuario: in parte libertà, parte
fioritura, parte rifugio, parte prospettiva”.
leuzzi@antiit.eu
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