Si vede nella mostra romana della
fotografa Inge Morath, la moglie di Arthur Miller, una vecchia foto del suo
viaggio in Spagna, 1951, con la didascalia “I Giganti, a Vigo”. Le figurazioni di coppia ancora in uso nelle feste di paese in Calabria e Sicilia, di un personaggio di
colore moro, lui o lei, e di uno bianco, lei o lui. Che volteggiano,
ingigantiti, al rullo dei tamburi – più speso suonati da ragazzi. Una
figurazione dunque spagnola, ispirata al regno di Granada. Di cui in Calabria e
in Sicilia non si ha, né si cerca, la minima memoria.
Si vedono nella stessa mostra le foto
che Inge Morath fece di Venezia negli anni 1950, per l’agenzia Magnum per la
quale lavorava e per un volume di Mary McCarthy, “Venice observed”. Di una
povertà squallida: mura scrostate, bambini scalzi, donne sgraziate, sguardi
incavati, cupi – c’è anche un banco della tombola. Che non c’era in Calabria, o
in Sicilia. E che naturalmente a Venezia non
c’è più, da tempo: alla povertà si rimedia, di solito.
Meglio
non fare
Al tempo del trattato “Della Moneta”, 1751,
Ferdinando Galiani poteva concludere che i regni di Napoli e Sicilia si
risollevavano, grazie a un loro proprio sovrano, Carlo III di Borbone, mentre
il resto d’Italia declinava. Per il non governo. Che il resto dell’Italia subiva
però per una pretesa, molto meridionale, al governo perfetto, fatto cioè di
regole e regolamenti “ferrei”.
Sintomo della decadenza Galiani dice
“l’infinito discorso e l’innumerevole quantità di riforme, di miglioramenti, di
leggi e d’istituzioni sul governo, sul traffico, e sopra tutti gli ordini dello
stato civile, fatti da per tutto e a gara intrapresi”. Sembra l’Italia d’oggi,
perfettissima e ferma, tutta regole, che la corruzione finiscono per imporre.
Il passo è intitolato “Non fare”, ma è
da intendere: meno chiacchiere, più fare. L’autonomia, seppure non nella
libertà. E il fare, anche con errori – che Galiani dice “non fare” (“il non
fare è cosa molte vlte ripiena di prego e d’utilità”, e “inoltre difficile
molto, e faticosa assai più che non pare ad eseguire”). Questi i presupposti
della crescita, dello sviluppo economico.
Due anni dopo Galiani individuava,
scrivendo al medico e naturalista toscano Cocci, la radice forse principale del
ritardo del Sud: “Un regno di tre milioni d’anime pieno d’opulenza e di spiriti
meravigliosi feudo d’un principe che l’ha sempre (avuto) donato senza averlo
mai conquistato e senza averlo mai potuto possedere”.
Che si può intendere il principe in
carica a Napoli. Oppure, peggio, il papa: nominalmente il regno era infeudato
al papato, che l’aveva riconquistato, dai Longobardi, i Bizantini e i Saraceni,
con i Normanni.
La sussidenza di
Napoli
Fulminante l’avvio di Roberto De Simone,
il suo scrittore migliore che Napoli non onora, a “L’opera buffa del Giovedì Santo”:
“Napoli nel secolo XVIII: una famosa capitale europea, una promessa non
mantenuta, una speranza delusa, un’avventura culturale conclusasi con un canto
sospeso, vagamente conosciuto attraverso una memoria confusa e lacerata.
Insomma, un interminabile e immobile giovedì santo, in attesa di una domenica
di resurrezione, destinata a rimanere sempre attesa”.
Già per l’abate Galiani, circa il 1770, la
città era il nulla. Un decennio prima, nel trattato giovanile e classico “Della
moneta”, trovava il Regno messo molto meglio del resto dell’Italia, perché
aveva un re proprio, e un’autonomia di decisione e di governo. Nel 1770,
tornato nella capitale del Regno dopo dieci anni di Parigi, la scopre un
deserto. Nocivo, scrive al barone d’Holbach: “Sono Gulliver tornato al paese
degli Houyhnhnms”.
Ma l’abate restava ambivalente. Dieci anni
dopo, “Del dialetto napoletano”, saprà anche perché, in qualche misura
lusinghiero – il napoletano è malinconico: “Merita riflessione che non sono
certamente i Napoletani né i più loquaci né i più facondi tra le nazioni”. I
Toscani, i Francesi parlano “con copiosa vena di parole”. Che “è sempre un
indizio di molta dose di delicatezza di spirito e di scarsa sensibilità nel
cuore”. È questa, la “sensibilità nel cuore”, che zavorra “il Napoletano,
l’ente della natura che ha forse i nervi più delicati e la più pronta
irritabilità nelle fibre”. Il Napoletano, “se non è tocco da sensazioni, tace:
se lo è…. subito s’infiamma”, e ragiona a modo suo.
L’abate si è dimenticata la delicatezza di
spirito.
Ma già in precedenza, nel 1753, scrivendo
a un suo corrispondente toscano, Antonio Cocchi, letterato, naturalista,
professore di medicina e anatomia, per lamentare la superficialità del Grand
Tour, delle impressioni forestiere, ne vedeva acuto il limite: “Una città di
quattrocento mila anime, che è l’unica in Italia e forse nel mondo che da
duemila anni non ha respirato mai aria di libertà, che ha mutato padrone più
spesso d’ogni altra della terra, e che
mostra in sé un meraviglioso contrasto di natura benefica e d’arte di
struggitrice, che cede alla fine vinta dall’infinita forza della natura”.
La sussidenza parte da lontano.
Per quanto, il “meraviglioso contrasto”
non si direbbe il contrario: la natura distruttrice e l’arte benefica? Ci sarebbe
una riserva d’umanità, malgrado tutto.
Si rilegge
l’abate Galiani, o Genovesi – peraltro non più editi, da molti decenni – come un’apparizione
che riporta alla scomparsa di Napoli. Alla sussidenza, all’inabissamento.
Calabria
Bizzarra ricostruzione (giornalistica?)
del voto di scambio a Aosta: non ci sono famiglie mafiose colpevoli, ci sono famiglie calabresi.
“Corriere della sera” e “la Repubblica” non si distinguono in questo.
Curiosamente, dovunque ci sono giudici
napoletani, da Boccassini a de Raho, non ci sono camorristi, solo
‘ndranghetisti. La malavita è a senso unico.
Fa
(costose) campagne promozionali, a periodi sempre più ravvicinati, ma raccoglie
pochi turisti, benché abbia punti di attrazione notevoli, naturali, storici,
culturali, perfino culinari, dice il “New York Times”. Che evidentemente non sa
mettere a frutto. Pochi turisti, documenta Claudio Visentin sul “Sole 24 Ore”:
il 2,2 per cento del totale nazionale. Concentrato, è da aggiungere, nelle due
settimane a cavaliere di Ferragosto – familiari per lo più di vecchi genitori o
zii, che tornano per una rapida visita. Pochi, tra i pochi turisti, gli
stranieri: solo uno su cinque è straniero. Mentre nella media nazionale lo è uno
su due: l’ospitalità richiede umiltà e costanza, mentre la dottrina è sempre
selvaggia , del “pochi, maledetti, e subito”.
È
l’eterno problema di una borghesia inconsistente, dell’eterno anarchismo.
“Aspettare
coll’ova ‘mpietto” l’abate Galiani spiega “metafora presa dagli uovi de’ bachi
da seta, che le donne che fanno tale industria mettono a schiudere nel caldo
delle loro tette”, attente e levarli appena schiudono. L’esercizio si praticava
in Calabria, la terra della bachicoltura, di donne dunque prosperose.
Esumando
i due anni trascorsi dopo la guerra, tra il 1944 e il 1946, a Vibo Valentia,
Scalfari tratteggia “la Calabria” così (“Grand Hotel Scalfari”, 119): “Entrai
in contatto fisico con i pregiudizi e il sottosviluppo, ma anche con un’idea
molto calabrese di bellezza e di libertà”.
Una
immedesimazione che si trasforma in rifiuto nel 1972, quando ci torna per il
funerale del padre, “quando le costruzioni spesso non finite del selvaggio
sacco edilizio ormai irraggiavano un senso di smarrimento, con scheletri di cemento e mattoni, mozziconi di
case, finestre murate o divelte, piloni”. Un “sacco” di necessità –
l’abusivismo famoso di necessità.
La
democrazia ha dei costi, e la Calabria li paga tutti, in eccesso. La casa interminata
è il prosciugamento di qualsiasi risorsa, l’asservimento a vita, alla banca, al
mutuo.
Racconta la bio wikipedia di Vittorio Gassman che il futuro
mattatore “all’età di cinque anni visse un anno a Palmi, dove il padre era
impegnato nella costruzione del nuovo quartiere Ferrobeton. Gassman raccontò
spesso di ricordi legati a quella esperienza” – che viene citata anche ne “Il
mattatore”, il film su misura di Dino Risi per Gassman, 1960. Ma Palmi non ne
ha ricordo.
È “Caffè Reggio” il caffè storico d New York. Ornato di
stucchi e boiseries primo Novecento.
Dove fu proposto per la prima volta in America il cappuccino, nel 1927, l’anno
dell’apertura. Da Domenico Parisi, che aveva voluto per il caffè il nome della
città da cui proveniva, Reggio Calabria.
Aschenez, nome di strade e ambienti importanti a Reggio fa
ascendere al solito a Omero. Ma perché non sarebbe il nome di una comunità
ebrea, ashkenazita invece che sefardita, quale era quela reggina.
“Una natura scabra, immiserita dagli uomini”, C.Alvaro,
“Ultimo diario”. Dagli uomini nel senso dei maschi.
Una
raccolta esiste delle sorgenti calabresi compilata dal ministero dei Lavv.
Pubblici nel 1932: 19 mila nomi di sorgenti suddivisi per Province e Comuni
(“Calabria Illustrata”157\58, pp. 7). Con nomi anche vocativi: Spilinga, grotta,
Calamona, canneto, Marafù, finocchietto, Ciniti, Cinicà, azzurro (da kianos), Santo, giallo (xanthos)
leuzzi@antiit.eu
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