lunedì 30 dicembre 2019

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (413)

Giuseppe Leuzzi


Si vede nella mostra romana della fotografa Inge Morath, la moglie di Arthur Miller, una vecchia foto del suo viaggio in Spagna, 1951, con la didascalia “I Giganti, a Vigo”. Le figurazioni di coppia ancora in uso nelle feste di paese in Calabria e Sicilia, di un personaggio di colore moro, lui o lei, e di uno bianco, lei o lui. Che volteggiano, ingigantiti, al rullo dei tamburi – più speso suonati da ragazzi. Una figurazione dunque spagnola, ispirata al regno di Granada. Di cui in Calabria e in Sicilia non si ha, né si cerca, la minima memoria.

Si vedono nella stessa mostra le foto che Inge Morath fece di Venezia negli anni 1950, per l’agenzia Magnum per la quale lavorava e per un volume di Mary McCarthy, “Venice observed”. Di una povertà squallida: mura scrostate, bambini scalzi, donne sgraziate, sguardi incavati, cupi – c’è anche un banco della tombola. Che non c’era in Calabria, o in Sicilia. E che naturalmente a Venezia non  c’è più, da tempo: alla povertà si rimedia, di solito.

Meglio non fare
Al tempo del trattato “Della Moneta”, 1751, Ferdinando Galiani poteva concludere che i regni di Napoli e Sicilia si risollevavano, grazie a un loro proprio sovrano, Carlo III di Borbone, mentre il resto d’Italia declinava. Per il non governo. Che il resto dell’Italia subiva però per una pretesa, molto meridionale, al governo perfetto, fatto cioè di regole e regolamenti “ferrei”.
Sintomo della decadenza Galiani dice “l’infinito discorso e l’innumerevole quantità di riforme, di miglioramenti, di leggi e d’istituzioni sul governo, sul traffico, e sopra tutti gli ordini dello stato civile, fatti da per tutto e a gara intrapresi”. Sembra l’Italia d’oggi, perfettissima e ferma, tutta regole, che la corruzione finiscono per imporre.
Il passo è intitolato “Non fare”, ma è da intendere: meno chiacchiere, più fare. L’autonomia, seppure non nella libertà. E il fare, anche con errori – che Galiani dice “non fare” (“il non fare è cosa molte vlte ripiena di prego e d’utilità”, e “inoltre difficile molto, e faticosa assai più che non pare ad eseguire”). Questi i presupposti della crescita, dello sviluppo economico.

Due anni dopo Galiani individuava, scrivendo al medico e naturalista toscano Cocci, la radice forse principale del ritardo del Sud: “Un regno di tre milioni d’anime pieno d’opulenza e di spiriti meravigliosi feudo d’un principe che l’ha sempre (avuto) donato senza averlo mai conquistato e senza averlo mai potuto possedere”.
Che si può intendere il principe in carica a Napoli. Oppure, peggio, il papa: nominalmente il regno era infeudato al papato, che l’aveva riconquistato, dai Longobardi, i Bizantini e i Saraceni, con i Normanni.

La sussidenza di Napoli
Fulminante l’avvio di Roberto De Simone, il suo scrittore migliore che Napoli non onora, a “L’opera buffa del Giovedì Santo”: “Napoli nel secolo XVIII: una famosa capitale europea, una promessa non mantenuta, una speranza delusa, un’avventura culturale conclusasi con un canto sospeso, vagamente conosciuto attraverso una memoria confusa e lacerata. Insomma, un interminabile e immobile giovedì santo, in attesa di una domenica di resurrezione, destinata a rimanere sempre attesa”.
Già per l’abate Galiani, circa il 1770, la città era il nulla. Un decennio prima, nel trattato giovanile e classico “Della moneta”, trovava il Regno messo molto meglio del resto dell’Italia, perché aveva un re proprio, e un’autonomia di decisione e di governo. Nel 1770, tornato nella capitale del Regno dopo dieci anni di Parigi, la scopre un deserto. Nocivo, scrive al barone d’Holbach: “Sono Gulliver tornato al paese degli Houyhnhnms”.

Ma l’abate restava ambivalente. Dieci anni dopo, “Del dialetto napoletano”, saprà anche perché, in qualche misura lusinghiero – il napoletano è malinconico: “Merita riflessione che non sono certamente i Napoletani né i più loquaci né i più facondi tra le nazioni”. I Toscani, i Francesi parlano “con copiosa vena di parole”. Che “è sempre un indizio di molta dose di delicatezza di spirito e di scarsa sensibilità nel cuore”. È questa, la “sensibilità nel cuore”, che zavorra “il Napoletano, l’ente della natura che ha forse i nervi più delicati e la più pronta irritabilità nelle fibre”. Il Napoletano, “se non è tocco da sensazioni, tace: se lo è…. subito s’infiamma”, e ragiona a modo suo.
L’abate si è dimenticata la delicatezza di spirito.

Ma già in precedenza, nel 1753, scrivendo a un suo corrispondente toscano, Antonio Cocchi, letterato, naturalista, professore di medicina e anatomia, per lamentare la superficialità del Grand Tour, delle impressioni forestiere, ne vedeva acuto il limite: “Una città di quattrocento mila anime, che è l’unica in Italia e forse nel mondo che da duemila anni non ha respirato mai aria di libertà, che ha mutato padrone più spesso d’ogni altra della terra,  e che mostra in sé un meraviglioso contrasto di natura benefica e d’arte di struggitrice, che cede alla fine vinta dall’infinita forza della natura”.
La sussidenza parte da lontano.
Per quanto, il “meraviglioso contrasto” non si direbbe il contrario: la natura distruttrice e l’arte benefica? Ci sarebbe una riserva d’umanità, malgrado tutto.

Si rilegge l’abate Galiani, o Genovesi – peraltro non più editi, da molti decenni – come un’apparizione che riporta alla scomparsa di Napoli. Alla sussidenza, all’inabissamento.

Calabria
Bizzarra ricostruzione (giornalistica?) del voto di scambio a Aosta: non ci sono famiglie mafiose colpevoli, ci sono famiglie calabresi. “Corriere della sera” e “la Repubblica” non si distinguono in questo.

Curiosamente, dovunque ci sono giudici napoletani, da Boccassini a de Raho, non ci sono camorristi, solo ‘ndranghetisti. La malavita è a senso unico.

Fa (costose) campagne promozionali, a periodi sempre più ravvicinati, ma raccoglie pochi turisti, benché abbia punti di attrazione notevoli, naturali, storici, culturali, perfino culinari, dice il “New York Times”. Che evidentemente non sa mettere a frutto. Pochi turisti, documenta Claudio Visentin sul “Sole 24 Ore”: il 2,2 per cento del totale nazionale. Concentrato, è da aggiungere, nelle due settimane a cavaliere di Ferragosto – familiari per lo più di vecchi genitori o zii, che tornano per una rapida visita. Pochi, tra i pochi turisti, gli stranieri: solo uno su cinque è straniero. Mentre nella media nazionale lo è uno su due: l’ospitalità richiede umiltà e costanza, mentre la dottrina è sempre selvaggia , del “pochi, maledetti, e subito”.
È l’eterno problema di una borghesia inconsistente, dell’eterno anarchismo.

“Aspettare coll’ova ‘mpietto” l’abate Galiani spiega “metafora presa dagli uovi de’ bachi da seta, che le donne che fanno tale industria mettono a schiudere nel caldo delle loro tette”, attente e levarli appena schiudono. L’esercizio si praticava in Calabria, la terra della bachicoltura, di donne dunque prosperose.

Esumando i due anni trascorsi dopo la guerra, tra il 1944 e il 1946, a Vibo Valentia, Scalfari tratteggia “la Calabria” così (“Grand Hotel Scalfari”, 119): “Entrai in contatto fisico con i pregiudizi e il sottosviluppo, ma anche con un’idea molto calabrese di bellezza e di libertà”.
Una immedesimazione che si trasforma in rifiuto nel 1972, quando ci torna per il funerale del padre, “quando le costruzioni spesso non finite del selvaggio sacco edilizio ormai irraggiavano un senso di smarrimento, con  scheletri di cemento e mattoni, mozziconi di case, finestre murate o divelte, piloni”. Un “sacco” di necessità – l’abusivismo famoso di necessità.
La democrazia ha dei costi, e la Calabria li paga tutti, in eccesso. La casa interminata è il prosciugamento di qualsiasi risorsa, l’asservimento a vita, alla banca, al mutuo.

Racconta la bio wikipedia di Vittorio Gassman che il futuro mattatore “all’età di cinque anni visse un anno a Palmi, dove il padre era impegnato nella costruzione del nuovo quartiere Ferrobeton. Gassman raccontò spesso di ricordi legati a quella esperienza” – che viene citata anche ne “Il mattatore”, il film su misura di Dino Risi per Gassman, 1960. Ma Palmi non ne ha ricordo.

È “Caffè Reggio” il caffè storico d New York. Ornato di stucchi e boiseries primo Novecento. Dove fu proposto per la prima volta in America il cappuccino, nel 1927, l’anno dell’apertura. Da Domenico Parisi, che aveva voluto per il caffè il nome della città da cui proveniva, Reggio Calabria.

Aschenez, nome di strade e ambienti importanti a Reggio fa ascendere al solito a Omero. Ma perché non sarebbe il nome di una comunità ebrea, ashkenazita invece che sefardita, quale era quela reggina.  

“Una natura scabra, immiserita dagli uomini”, C.Alvaro, “Ultimo diario”. Dagli uomini nel senso dei maschi.

Una raccolta esiste delle sorgenti calabresi compilata dal ministero dei Lavv. Pubblici nel 1932: 19 mila nomi di sorgenti suddivisi per Province e Comuni (“Calabria Illustrata”157\58, pp. 7). Con nomi anche vocativi: Spilinga, grotta, Calamona, canneto, Marafù, finocchietto, Ciniti, Cinicà, azzurro (da kianos), Santo, giallo (xanthos)


leuzzi@antiit.eu

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