Sulla traccia dei suoi soliti
“eruditi tedeschi”, De Quincey riflette sui pochi cenni alla fine (alla vita)
di Giuda dei suoi compagni di avventura, gli apostoli. Dei quali pure era il
tesoriere, cioè uno con esperienza di mondo, oltre a saper fare di conto, non
un anonimo: poche parole nel vangelo di Matteo (“egli andò e si impiccò”), e
notazioni stravaganti negli “Atti degli Apostoli”. In una “cadde a testa in giù”,
in un’altra “si spezzò nel mezzo”, in una terza “i visceri si riversarono
fuori”. Ne conclude che non ci fu tradimento ma delusione. I suoi compagni di
avventura erano impacciati a trattarne, perché ne avevano condiviso le
aspettative – prima di continuare l’opera alla quale col Cristo si erano
avviati, di guaritori.
Giuda è un eroe, in un
sentito nazionalistico: uno di “un profondo patriottismo ebraico”. Infine
deluso, come tutti i discepoli, dall’incapacità del Cristo di realizzare la
restaurazione del trono di Davide. “Non era affatto la religione quello che,
prima della crocefissione, ritenevano oggetto dell’insegnamento di Cristo; per
loro era la pura e semplice preparazione di un progetto miseramente prosaico di
espansione terrena” – loro, i discepoli. Il popolo attendeva un cenno per
ribellarsi. E Giuda, “essendo il tesoriere degli apostoli, era verosimilmente
quello dotato di maggior discernimento nelle cose terrene e aveva più
dimestichezza con gli umori del tempo”.
In originale con la traduzione.
Thomas De Quincey, Giuda Iscariota, Ibis, remainders, pp.
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