Derrida non è mai stato uno marciante, e anzi ha
avuto qualche problema - a fine 1983, quando già il “sistema” scricchiolava, fu
fermato a Praga, reo di avere partecipato a un seminario filosofico organizzato
da Charta 77, il movimento di opposizione. Con la caduta dell’Urss, della
“macchina per fare dogmi”, trova invece che molto va salvato. Senza rivendicare
eredità, ma convinto che “uno almeno dei suoi spiriti”, degli spiriti di Marx, va salvato. Di un pensiero
e una prassi che legge non sistematici né omogenei, o coerenti, e anzi
caratterizzati al contrario, dagli abbandoni repentini, i ripensamenti, le causalità
problematiche – è vero che Marx era umorale. Che cosa va salvato? Va salvato Marx
come spettro, e come teorico della spettralità.
Fin qui tutto è semplice, perfino scolastico –
siamo al celebre incipit del “Manifesto”, il catechismo di Marx. Come
arrivarci, invece, con Derrida è complicato, perfino labirintico. Attraverso
cioè una rilettura minuziosa dei testi che spesso lascia sospesi più che
informati. Anche perché Derrida fa come Marx: usa molto Shakespeare, e poi i
soliti Heidegger, Blanchot e Kojève. Con molte parole composte e decomposte. Le
concatenazioni, perfino le omofonie. Senza farsi mancare l’aspetto ludico –
questo ben marxiano, è il procedimento che Marx privilegiava. E quasi ironico,
se non parodistico. Ma l’impianto è serio. La dedica è alla memoria di un
militante comunista sudafricano assassinato.
Marx è ben ancora vivo e combatte insieme a noi. Solo sottaciuto, temendosene lo spirito di rivolta che tanto ha alimentato. Una sorta di morto vivente. Uno spettro, come l’ombra del padre di Amleto. Sta lì anche se non parla, a ricordarci che “il tempo è fuori di sesto”, le cose non vanno. Il libro è del 1993, ma Derrida già sa che la globalizzazione, con i licenziamenti in massa in Europa e negli Usa, e il taglio dei salari, è una controrivoluzione: “Bisogna proprio gridare che mai, nella storia della terra e dell’umanità, la violenza, l’ineguaglianza, l’esclusione, la miseria, e dunque l’oppressione economica, hanno coinvolto tanti esseri umani”.
Marx è ben ancora vivo e combatte insieme a noi. Solo sottaciuto, temendosene lo spirito di rivolta che tanto ha alimentato. Una sorta di morto vivente. Uno spettro, come l’ombra del padre di Amleto. Sta lì anche se non parla, a ricordarci che “il tempo è fuori di sesto”, le cose non vanno. Il libro è del 1993, ma Derrida già sa che la globalizzazione, con i licenziamenti in massa in Europa e negli Usa, e il taglio dei salari, è una controrivoluzione: “Bisogna proprio gridare che mai, nella storia della terra e dell’umanità, la violenza, l’ineguaglianza, l’esclusione, la miseria, e dunque l’oppressione economica, hanno coinvolto tanti esseri umani”.
Ma,
poi, non cessa di essere Derrida, il Marx ghostbuster è presto abbandonato. La
questione trasferendo alla
decostruzione, di Marx e della contemporaneità. A Heidegger. A Blanchot. Il Marx di
Derrida non è uno spettro politico, è “l’apertura messianica a ciò che viene,
cioè all’evento che non si potrebbe attendere come tale, né dunque riconoscere
anticipatamente, all’evento come l’estraneo stesso, a colei o colui per cui si
deve lasciare un posto vuoto, sempre, in memoria della speranza”. La memoria
della speranza.
Un libro – ancora oggi – controcorrente. Anche, in
certo senso, anti-Derrida: una presa di posizione malgrado tutto politica. Vuole
dichiaratamente essere una denuncia delle “piaghe del nuovo ordine mondiale”:
la disoccupazione, il salario da fame, il debito estero del sud del mondo, le
guerre economiche e interetniche, e perfino quelle “umanitarie”. Con un sottotitolo
militante, da capo-cellula: “Stato del debito, lavoro del lutto e nuova
Internazionale”.
Curiosamente, Marx ossessiona Derrida, altrimenti insensibile se non
tetragono, da morto. Gli spettri di Marx sono quelli di Derrida, a disagio
nella “fine della storia”.
Jacques Derrida, Gli spettri di Marx, Cortina, pp. 245
€® 24
The Spectres of Marx, pp. 277, free online
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