Carlo
I Stuart – Si consegnò a nemici repubblicani
fuggendo. Una parabola politica però non eccezionale, anche se difficilmente si
arriva al grado stolidità che gli costò il carcere, e poi la decapitazione, a
opera del feroce Cromwell. “Un principe di grande abilità” lo dice De Quincey
in margine al trattatello “La casistica dei pasti romani” – ma per questo tanto
più “stupisce osservare con che scarsa lungimiranza egli si sia avviato alla
difficile impresa di fuggire dalla sorveglianza dei suoi carcerieri”. Una prima
volta fuggì agevolmente: gli scozzesi suoi fedeli erano accampati davanti a
Newark, alla sua prigione. La seconda volta sembrò voler andare incontro al
destino di morte. De Quincey lo racconta bene:
“Il re era al sicuro. Nella casa di
campagna di Lord Southampton godeva della protezione di una famiglia leale,
pronta ad affrontare ogni rischio per aiutarlo. Il suo nascondiglio era
completamente sconosciuto”. Ma si faceva
assistere “da due gentiluomini, Berkeley e Ashburnham”, puntando “sulle loro
qualità di coraggio e prontezza e sulla loro conoscenza dei luoghi e gli
eventi”. Dei quali “uno era da sempre sospetto di tradimento”, e “entrambi
erano degli imbecilli”. Fu così che il rifugi segreto fu comunicato al
comandante militare della regione: “Di colpo la scena cambia. Il comandante
militare dell’isola di Wight viene graziosamente
informato della sistemazione del re e condotto in sua presenza, con un
drappello di soldati”. Anche se il solo e preciso obiettivo del colonnello
Hommond era di ricercare e arrestare il re. Lo si pensava degno di fede perché
era i nipote del cappellano del re, il dr. Hommond. “Il colonnello Hommond era
il nipote del cappellano del re”, riconosce De Quincey: “Sta bene. Ma al tempo
stesso era marito della nipote di Cromwell, e su Cromwell puntava le sue
aspettative di carriera.
E non è finita. Dalla nuova prigione,
continua De Quincey, “era possibile tentare ancora la fuga, e di nuovo si
organizzò una fuga”. Se non che “rivedere le circostanze di questa fuga è come
leggere una pagina strappata alle cronache di un manicomio”. In breve: “Carlo
doveva uscire da una finestra. Questa finestra era chiusa da sbarre di ferro.
Queste sbarre erano state un po’ corrose con dell’acquaforte. Il re riuscì a
farci passare la testa e confidava in questo risultato per la fuga, poiché
collegava il tentativo a questa strana massima o postulato: ovunque può passare
la testa, può passare tutta la persona”. Ma “alla prova finale” naturalmente
“si scoprì che questa regola assurda non era da ritenersi corretta. Il re si
incastrò con le spalle e il torace e venne liberato con difficoltà”. Dalle
guardie di Cromwell. Per non dire, aggiunge De Quincey perfido, che sotto le
sbarre “il re ebbe modo di vedere”, con la testa incastrata e “alla debole
luce, un gruppo di persone che non annoverava tra i suoi fedeli”.
Galli
– Erano i più numerosi, e i preferiti,
nelle armate di Cesare, galli della Gallia Transalpina e di quella Cisalpina,
anche Cispadana – finché Cesare guerreggiò sul fianco occidentale di Roma, nelle
Gallie fino al Reno. I galli no erano barbari. Erano guerrieri, al modo dei
romani, e civilizzati, anche se non altrettanto bene organizzati politicamente
– giuridicamente - né bravi architetti o costruttori. Organizzati ancora
prevalentemente su base tribale. Cesare combatté contro molti nemici, le tribù
germaniche, gli spagnoli, gli elvezi, gli illiri, africani di ogni tipo, isolani
del Mediterraneo, asiatici nemici di Roma o arruolati da Pompeo. Ma molto vinse
con i galli. Anche nella battaglia decisiva di Farsalo: la V legione poi famosa
dell’Alaudae, che portava un elmo a forma di allodola, era stata reclutata in
Gallia da Cesare con i suoi fondi privati. Erano combattenti svelti, con la
famosa Terza legione costituivano un terzo dello schieramento cesariano, e
furono decisivi nella vittoria.
Occhio
di lince – Non si sa se la lince veda “in
profondità”, al di là della superficie, secondo il detto. Che di suo ha tutta
l’aria di un “refuso”, del tempo degli amanuensi, quando i testi venivano
copiati, in unica copia, a mano. E quindi ogni errore di copiatura faceva testo
per i lettori.
La
lince vede in profondità a partire da Oddone di Cluny, santo e colto monaco
francese, 878-942. Oddone è all’origine della ideologia della carogna – il
corpo umano è una carogna, fetida – con i suoi “Disprezzi”, che tanti altri
monaci faranno propri, e poi papa Innocenzo III in un suo famoso “De contemptu
mundi”. In uno dei “Disprezzi” Oddone così sintetizza il suo pensiero, rinverdendo un monito di san Giovanni
Crisostomo: “La bellezza del corpo si limita alla pelle. Se gli uomini vedessero
quel che c’è sotto la pelle, cosi come si dice possa vedere la lince di Beozia,
rabbrividerebbero”.
È questo richiamo che è enigmatico: della Beozia, patria di Pindaro, Esiodo, Plutarco di Cheronea, del Parnaso
e di Elicona, e anche un po’ di Delfi, ombelico del mondo, non si sa che
ospitasse le linci.
Di linci ai raggi X parla Boezio, “La consolazione della filosofia”, 3, 8: “Se, come dice Aristotele, gli
uomini avessero l’occhio di lince, e potessero vedere oltre l’ostacolo,
arrivati alle viscere interne non apparirebbe bruttissimo perfino il famoso
Alcibiade, così bello da fuori?”. Oddone, che ha tratto il suo riferimento da
Boezio, potrebbe voler dire “la lince di (cui parla) Boezio” (anche Alcibiade
fu sfortunato: Francis Villon lo fa femmina e cortigiana, “cugina germana” di Taide).
Ma il caso può essere più complicato, se di
Boezio si prende la trascrizione heidelberghiana, che reca la dizione “Lyncei
oculis” e non “lynceis oculis”, dando più corpo alla visione terrificante. Poiché
chi va in profondità è in questo caso Linceo, l’argonauta figlio di Alfareo re
di Libia (putativo per Poseidone), imbattibile se in compagnia del gigantesco
gemello Idas - coppia antagonista dei loro più famosi
cugini Castore e Polluce. “La sua vista”, di Linceo, secondo Apollodoro,
“penetrava nelle profondità della terra”. Acuita forse dalla terribile notte in
cui le sue 49 cugine, figlie di Egitto, re di Arabia, un fratello di Alfareo,
fecero fuori i suoi 49 fratelli - ponendo fine a una serie di tentativi di
questi di uccidere quelle con promesse di matrimonio (lui ebbe salva la vita
perché, risparmiandone la verginità, s’era conquistato l’affetto della
cinquantesima sorella, Ipermestra sua moglie). Si direbbe però che ha visto
“dopo” la strage, e non “prima”.
Terza Repubblica - Il film
di Polanski “L’ufficiale e la spia” ricostruisce e richiama di prepotenza un
assetto politico-militare, quello francese di Fine Secolo (Ottocento) che è e
sarà quello italiano della Repubblica. La Repubblica italiana nasce, nel
dopoguerra, sulle spoglie, si può dire, della Terza Repubblica francese, di cui
assume le connotazioni: il nazionalismo sterile (sconfitto brutalmente nel 1870,
resistente a caro prezzo, per impreparazione, nel 1914, e finito in un 8
settembre rovesciato (anticipato) nella drôle
de guerre dei pochi mesi, giusto alcune settimane, svogliate, del 1939-40. Con
il confessionalismo al posto della massoneria. Il leguleismo. La politica di consorteria,
di gruppi ristretti e anonimi – con ministri e presidenti del consiglio venuti
da non si sa dove né come, tipo Conte. L’apparato militare e di polizia al di
sopra delle leggi. Il senso solo formale delle istituzioni. Una stampa condiscendente,
seppure di parte, in ruoli predefiniti. La giustizia politica, o il complotto
giudiziario costante. Questa soprattutto: il controllo surrettizio della vita
nazionale attraverso mezzi poliziesco-giudiziari.
La Terza Repubblica si richiamava
naturalmente alla rivoluzione del 1789, e non pochi studiosi con essa: la Rivoluzione
sarebbe continuata, secondo questa corrente di pensiero, seppure a sbalzi, nel
1830, nel 1848, nel 1870 e poi ancora fino alla Grande Guerra. Gramsci fa suo
questo approccio (“Quaderni del carcere”, 13, (XXX) § (17)): “Le contraddizioni
interne della struttura sociale francese che si sviluppano dopo il 1789 trovano
una loro relativa composizione solo con la Terza Repubblica, e la Francia ha 60
anni di vita politica equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre
più lunghe: 89-94-99-1804-1815-1830-1848-1870”.
Gramsci dà anche, nel prosieguo della
nota, il meccanismo d’influenza esterno: “Una ideologia, nata in un paese
sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale
delle combinazioni. (La religione, per es., è sempre stata una fonte di tali
combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali, la massoneria, il
Rotary Club, gli ebrei, la diplomazia di carriera, che suggeriscono espedienti
politici di origine storica diversa e li fanno trionfare in determinati paesi,
funzionando come partito politico internazionale che opera in ogni nazione con
tutte le sue forze internazionali concentrate”).
astolfo@antiit.eu
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